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Daniele Valle
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Perché è ingiusto far pagare l’ingresso in centro a Torino come propone Lapietra

Cosa Penso

[Articolo del 27/09/2018 per Nuova Società]

Se l’idea dell’Assessora Lapietra andrà in porto l’accesso al centro di Torino, dal 2019, diventerà a pagamento. Lapietra ed Appendino hanno dichiarato che questa proposta ha lo scopo di ridurre l’inquinamento, ma è davvero così?

Per inquadrare la questione è utile innanzitutto avere qualche dettaglio in più su questa manovra.

Dalle prime stime dell’ufficio ai trasporti della Città di Torino risulta che questa “tassa sul centro” porterebbe almeno 6,3 milioni di euro in più all’anno nelle casse comunali, ovviamente solo dopo che saranno andati a regime gli investimenti necessari per far funzionare il meccanismo dei controlli degli ingressi (telecamere, lettori Telepass, piattaforma web per il controllo dei dati gestita da un team di oltre venti nuovi addetti, nuovi parcometri).

Dalle rilevazioni delle centraline di controllo dell’inquinamento risulta invece che le zone della città maggiormente colpite sono attualmente Grassi e Rebaudengo, ovvero tutt’altro che la zona centro. Ne consegue quindi che la motivazione di lotta all’inquinamento è piuttosto debole, mentre appare molto più convincente la stima economica di questa mossa, che servirebbe quindi al Comune di Torino a fare cassa (come se non bastasse la stretta sulle multe di cui la Sindaca si è più volte vantata fin dal suo insediamento).

Ora, per correttezza, sarebbe necessario anche chiedersi, su chi andrà a gravare questa tassa. In Italia vi sono già altre città che sono ricorse al cosiddetto road pricing (tradotto “strade a pagamento”), una su tutte Milano. È chiaro però che il pagamento dell’ingresso alla zona centro di Milano è una misura pensata soprattutto per chi arriva da fuori Milano, ovvero per tutti coloro che si recano nella città con frequenza non regolare per motivi di lavoro o shopping e che comunque non vi abitano.

Questo perché nel capoluogo lombardo la rete dei trasporti pubblici ha dimensioni maggiori di quelle torinesi: fra bus, treni, metropolitana e tutte le forme di sharing dei mezzi di trasporto, la macchina è davvero l’ultima delle soluzioni. Il che significa che andare in centro a Milano è generalmente una scelta e non una necessità.

Il centro di Torino, lo sanno bene gli abitanti di tutta la Città Metropolitana, è invece frequentato principalmente da residenti di Torino e provincia, per ragioni di lavoro o per acquistare nei negozi. Da qui deriva viene ovviamente anche il secondo problema, quello manifestato dai commercianti che giustamente temono un crollo verticale delle vendite.

Infine c’è un tema, per niente trascurabile, che emerge ogni qualvolta si introduce una tassa, ovvero quello della discriminazione fra chi potrà permettersi la spesa e chi non potrà farlo. È prevedibile quindi che questa manovra avrà conseguenze negative soprattutto nei confronti delle persone che provengono dalle zone più lontane dal centro (chi vi abita vicino ci mette meno a raggiungerlo con i mezzi che in macchina), che spesso sono anche quelle peggio servite dai bus, e di solito devono prendere l’auto per muoversi verso il centro nella speranza di fare più in fretta che con altri mezzi.

Il rischio che si corre è quindi quello di creare una ulteriore ghettizzazione delle periferie, anche perché l’Assessora Lapietra sull’utilizzo dei soldi potenzialmente ricavabili dalla tassa ha previsto per ora solo investimenti su “mobilità sostenibile e mezzi pubblici del centro”.

È quanto meno paradossale che un’amministrazione comunale che ha vinto le elezioni cavalcando lo scontento delle periferie proponga oggi una manovra del genere, inoltre è ovvio chiedersi come si possa decidere di far partire la lotta all’inquinamento proprio dal centro che è l’unica zona della città in cui ad oggi vi sono quotidiani blocchi del traffico.

Il timore che dietro questa manovra ci sia un interesse di cassa più che un’attenzione all’ambiente è quindi legittimo ed elevato, sta ora ad Appendino e alla sua giunta scegliere se modificare la strategia o se finalmente raccontarla per quello che è: un modo come un altro per far entrare soldi al Comune scaricato, tanto per cambiare, sulla pelle di chi è già in difficoltà.

 

*di Daniele Valle e Nadia Conticelli

3 Ottobre 2018/0 Commenti/da Daniele Valle

IN ITALIA SE NASCI POVERO, RESTI POVERO

Cosa Penso

NEL NOSTRO PAESE L’ASCENSORE SOCIALE SI E’ BLOCCATO. DA NOI QUASI LA METÀ DEL REDDITO DEI FIGLI DIPENDE DA QUELLO DEI GENITORI -QUANTO A DISEGUAGLIANZA DELLE OPPORTUNITA’ SUPERIAMO ANCHE REGNO UNITO E USA – NUMERI E CAUSE DI UN RAPPORTO PREOCCUPANTE.

 

06 settembre 2018, Roberta Carlini per espresso.repubblica.it (QUI L’ARTICOLO SU L’ESPRESSO)

 

Esiste un record negativo italiano che non è misurabile in debito pubblico, deficit, giovani Neet, evasione fiscale. Ma a guardarlo da vicino fa paura almeno quanto i primi. È l’immobilità sociale, o meglio: quanto della tua vita dipende dalla famiglia in cui sei nato.

Si può misurare in tanti modi ma, comunque la contiamo, l’Italia svetta in Europa, e di gran lunga. Lo rivelano i dati del più grande database sulla mobilità sociale nel mondo, costruito dalla Banca mondiale e illustrato nel rapporto “Fair Progress”. Tra i quali una buona parte viene dal progetto-partner, a guida italiana, di Equalchances.org: sul sito, creato dal Dipartimento di economia e finanza dell’università di Bari, ciascuno può divertirsi – diciamo così – a controllare, per il proprio e per gli altri Paesi, il funzionamento dell’ascensore sociale, scorrendo gli indici della diseguaglianza di opportunità, trasmissione del reddito e dello status tra generazioni, mobilità nell’istruzione.

mobilità sociale
MOBILITÀ SOCIALE

 

E una cosa è certa: qualcosa si è inceppato, servirebbe un ascensorista. Con particolare urgenza per l’Italia, dove quasi la metà del reddito dei figli è determinata dal livello di quello dei padri: condizione unica nell’Europa continentale, paragonabile solo a quella di Regno Unito e Stati Uniti, per i Paesi sviluppati. Ma, quanto a diseguaglianza delle opportunità, superiamo anche i regni di Brexit e Trump.

Di padre in figlio

«Ogni giorno nel mondo nascono 400 mila bambini. Nessuno di loro sceglie il genere, l’appartenenza etnica, il luogo in cui si è venuti al mondo. Né le condizioni economiche e sociali della famiglia. Il punto di partenza della vita è una lotteria».

Così la Banca mondiale introduce il suo rapporto, che punta a dare il primo set di numeri a copertura mondiale sulla mobilità tra generazioni. Espressione con la quale si intendono due cose:

  • quanto, nella media, il livello di vita e benessere di una generazione è migliorato rispetto a quella precedente;
  • quanto la posizione di ciascuna persona sulla scala economica dipende da quella dei suoi genitori.

Normalmente, le due cose vanno insieme: periodi di forte crescita economica fanno fare salti di benessere da una generazione all’altra e rendono anche più facile ai figli emanciparsi dallo status dei genitori. È quello che è successo nel mondo occidentale negli anni Cinquanta, e sta succedendo ora in paesi come Cina e India. Ma attenzione, dice la Banca mondiale: non è automatico che questo succeda, e infatti anche in molti paesi in via di sviluppo la mobilità sociale da genitori a figli oggi è bloccata.

E poi c’è il contrappasso, quando la crescita si ferma e la marea che portava avanti tutte le barchette si ritira. Come è successo in tutti i paesi sviluppati e con particolare evidenza in Italia. «Per un certo numero di anni la crescita ha consentito a tutti di migliorare le proprie posizioni, sono stati fatti molti passi avanti soprattutto nel rapporto tra titoli di studio», spiega Vito Peragine, professore di economia politica all’università di Bari e collaboratore del progetto della Banca mondiale. I cui numeri permettono anche di confrontare la mobilità tra generazioni di oggi con quella di ieri, e ci dicono che «negli ultimi venti anni, da quando si è fermata la pur debole crescita economica, si è evidenziato il blocco dell’ascensore sociale».

Anzi, a dirla tutta lo stop ha evidenziato che quell’ascensore non ha mai funzionato bene: per esempio, l’Italia è uno di quei paesi nei quali non c’è uno stretto rapporto tra i progressi nel settore dell’istruzione e quelli nel reddito.

In altre parole, il titolo di studio dei genitori è meno importante di prima nel definire quello che avranno i figli – l’operaio può bene avere il figlio dottore, si è avverato l’incubo della contessa di Paolo Pietrangeli – ma è anche poco rilevante nel determinarele opportunità relative di lavoro, reddito, benessere.

In effetti, se si vanno a guardare i numeri di equalchances.org, e si confronta la generazione nata nel ’40 con quella dell’80 – l’ultima di cui si abbiano dati completi – si vede che a scuola l’ascensore ha funzionato. L’indice che misura la mobilità tra generazioni nell’istruzione – più alto il numero, più bassa la mobilità – è sceso da 0,57 a 0,33. È successo lo stesso in Francia, Germania, persino nel Regno Unito, mentre lo stesso indice è sceso di pochissimo, da 0,34 a 0,32, negli Stati Uniti dell’istruzione privatizzata.

Eppure, questo buon andamento in Italia non ha migliorato sostanzialmente la mobilità tra generazioni nel reddito, e non ha ridotto le diseguaglianze di opportunità. L’indice che misura la mobilità intergenerazionale dei redditi è in Italia a quota 0,48, contro lo 0,35 della Francia e lo 0,23 della Germania. Vuol dire che da noi quasi la metà del reddito dei figli dipende da quello dei genitori. È il più alto d’Europa – vicino a quello inglese – e nel mondo sviluppato inferiore solo a quello degli Stati Uniti, paesi dai quali siamo tuttavia molto distanti nella struttura sociale ed economica.

Le diseguali opportunità

Da cosa dipende questa eccezione italiana in Europa? E perché il grande balzo in avanti nell’istruzione non ha avuto grandi effetti di reddito e benessere? La stessa Banca mondiale ci aiuta a rispondere, ridimensionando un po’ il peso del fattore “istruzione”: anche se tutto il rapporto è dedicato proprio alla mobilità educativa (sia come dati che come politiche auspicate), vi si spiega anche che ci sono altre motivazioni della persistenza del reddito e del benessere da una generazione all’altra.

A parità di istruzione il peso della famiglia di origine – fatto di status sociale, conoscenze, relazioni amicali – torna prepotente e si fa sentire di più in contesti più fermi, con maggiore disoccupazione, minore apertura. Tutto ciò può spiegare il più scioccante dei numeri che si possono scoprire navigando nei dati: quelli della diseguaglianza di opportunità.

Qui superiamo anche Gran Bretagna e Stati Uniti, e per trovare paesi più in alto dobbiamo confrontarci con il Brasile, il Sud Africa, la Bulgaria. In particolare, spiega Vito Peragine, abbiamo un livello molto alto di diseguaglianza “relativa” delle opportunità, ossia di quella parte delle diseguaglianze spiegato esclusivamente dalla propria origine, dalla lotteria della nascita. Numeri che ne introducono altri, stavolta più soggettivi: quelli sulla percezione della propria posizione e quella dei propri figli. Secondo una indagine citata dalla Banca mondiale, gli italiano sono al penultimo posto – seguiti solo dalla Slovenia in pessimismo – nella previsione “i bambini che nascono oggi staranno meglio di noi”: otto su dieci non la pensano così. Mentre quasi 4 su 10 ritengono comunque di stare meglio dei propri genitori.

 

13 Settembre 2018/0 Commenti/da Daniele Valle

L’economia della conoscenza sta uccidendo la nostra provincia

Cosa Penso

L’aumento delle disuguaglianze è anche territoriale. E mentre le città diventano sempre più ricche, intorno è il declino. Un impoverimento che dilaga a macchia di leopardo, dal nord al Mezzogiorno

DI GLORIA RIVA – 15 maggio 2018 (QUI ARTICOLO ORIGINALE SU L’ESPRESSO)
La vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti, la Brexit benedetta dai cittadini del Regno Unito, l’ingresso del partito di ultra destra Alternative für Deutschland nel Bundestag tedesco, la schiacciante vittoria di Viktor Orbán in Ungheria e, ancora, l’Italia, con la vittoria elettorale di Lega e Cinque Stelle, portavoce di un malcontento diffuso. Questi avvenimenti, genericamente catalogati alla voce populismo, sono l’effetto di un nuovo modello economico basato non più sull’industria, bensì sulla conoscenza, il cui risultato è la diseguaglianza territoriale in vertiginoso aumento.

«Immaginatevi un mondo con poche e piccolissime isole di prosperità, immerse in un mare di povertà e stagnazione. Ci stiamo dirigendo lì», a parlare è l’economista Joan Rosés, professore alla London School of Economics, che insieme a Nikolaus Wolf, capo economico alla Humboldt University di Berlino, ha creato un algoritmo in grado di definire dove si sta accumulando la ricchezza.

A giugno uscirà il loro libro che promette di essere il secondo atto dell’inquietante descrizione fatta dal francese Thomas Piketty in “Il Capitale nel XXI secolo”, pubblicato nel 2013. Piketty mostrava come i ricchi sarebbero diventati sempre più ricchi perché i rendimenti del capitale accumulato dalle persone abbienti sono e saranno sempre maggiori rispetto alla crescita dell’economia reale, favorendo quindi la disuguaglianza. Insomma, l’economista ha previsto un ritorno all’Ottocento, quando un buon matrimonio era sempre più remunerativo di un qualsiasi lavoro danaroso.

Rosés e Wolf aggiungono che non solo la ricchezza si accumula nelle mani di pochi, ma si concentra in alcune aree, per lo più urbane, creando il vuoto intorno. Dati alla mano, l’hanno dimostrato nell’abstract “The return of regional inequality: Europe from 1900 to today”, dove si dimostra come il periodo di diffusione della ricchezza si è concluso a metà degli anni Ottanta, in concomitanza con la chiusura dell’epoca fordista e con la fine delle grandi fabbriche, per fare spazio all’economia della conoscenza e alla globalizzazione.

L’Italia è fra i paesi più colpiti da questo fenomeno di impoverimento diffuso. Tant’è che non è più possibile parlare di un Nord ricco e di un Sud povero, ma succede che i comuni più indigenti si trovino non troppo lontano dalla più ricca città italiana, Milano. Dalle dichiarazioni dei redditi 2017 si scopre che fra i dieci comuni con la media reddituale più bassa d’Italia ci sono i due municipi comaschi Cavargna e Val Rezzo, la trentina Dambel e ben quattro comuni della provincia di Verbano Cusio Ossola, che separa il Piemonte dalla Svizzera, si tratta di Cavaglio-Spoccia , Gurro, Falmenta e Cursolo-Orasso, record nazionale con una ricchezza pro capite di 5.568 euro l’anno, in crollo del 24 per cento rispetto a due anni fa.

I quattro comuni si trovano tutti nell’impervia e isolata val Cannobina dove, fino a qualche decennio fa, si viveva di coltivazione e allevamento. Poi la gente del posto è migrata in Ticino, dove l’industria prospera e lassù sono rimaste non più di 700 persone, sprovviste di tutto. Non c’è una scuola, un asilo nido, un pronto soccorso, una banca, un supermercato e le strade, soggette a frane, vengono chiuse di frequente: meno di un mese fa il collegamento con la Svizzera è stato interrotto per l’ennesimo smottamento in cui hanno perso la vita due persone. Sono valli e montagne dimenticate da dio e sono anche l’esempio perfetto dell’Italia mappata dalla Presidenza del consiglio all’interno della Snai, la Strategia Nazionale per le Aree Interne, cioè quelle zone in cui i servizi scarseggiano.

Le Aree Interne rappresentano oltre metà dei comuni italiani, ospitano meno di un quarto della popolazione, ma occupano il 60 per cento della superficie nazionale e, come dicono gli economisti Rosés e Wolf nel loro lavoro, quelle zone stanno aumentando. E non coinvolgono più le tradizionali aree del Centro Sud, ma anche zone del Nord, come l’altopiano di Asiago, un tempo distretto turistico importante, oggi cenerentola di Cortina d’Ampezzo che d’inverno e d’estate fa il tutto esaurito, mentre ad Asiago non si ferma nessuno. E ancora soffrono le Dolomiti friulane, che nonostante non abbiano nulla da invidiare a quelle trentine stentano a intercettare la crescita economica: dopo la chiusura delle caserme al confine, non trovato altra fonte di reddito, ed è sfumato il tentativo di fare del monte Coglians, un tempo presidio militare, un luogo di prosperità.

C’è di più, Rosés sostiene che in Italia l’aumento delle disuguaglianze porterà anche alla fine del modello dei distretti industriali, spazzati via dalla nuova tendenza dei capitali ad accentrarsi nelle città più forti: «Il boom economico aveva portato all’Italia una fase di espansione e diffusione del benessere nelle province, perché è lì che gli imprenditori hanno aperto gli stabilimenti, facendo proliferare i distretti produttivi industriali. Oggi, invece, l’economia della conoscenza tende ad accentrare i migliori capitali umani nella città. Quest’ultima ha bisogno di poche persone molto istruite e ciò sta creando poli di estrema ricchezza e benessere, lasciando tutti gli altri al palo.

Questo fenomeno si sta verificando ovunque. In Cina la ricchezza delle città intellettualmente avanzate si scontra con l’arretratezza culturale e il disagio economico e sociale delle zone periferiche, delle campagne, delle aree dimenticate; in Spagna, Barcellona fa da locomotiva con i suoi centri d’eccellenza per la grafica e il design, mentre il resto del paese va al traino; Londra risucchia il 20 per cento delle società che al mondo si occupano di programmazione e informatica, staccando il resto dell’Inghilterra di parecchi punti di pil; lo stesso succede negli Stati Uniti, dove Los Angeles, San Francisco e New York diventano sempre più ricche rispetto alla media nazionale».

Città in salute e attrattive contro piccoli centri poveri e svuotati. Questo stesso fenomeno era stato individuato già all’inizio del Duemila dall’economista polacca e commissario europeo alle politiche regionali Danuta Hubner, che insieme all’italiano Fabrizio Barca, ex ministro del governo Monti, si era resa conto che la globalizzazione e l’abbattimento delle barriere intraeuropee stavano aprendo una profonda frattura, portatrice di diseguaglianza. Hubner e Barca avevano previsto il massiccio spostamento delle persone verso le aree più ricche e, per invertire la rotta, avevano cercato di attivare un sistema di politiche di coesione sociale per contrastare il fenomeno. Ma in molte zone il sostegno si è limitato a finanziamenti a pioggia, alla creazione di infrastrutture inutili, a clientelismi a favore dei politici locali che per qualche anno sono serviti a sedare rabbia e malcontento.

Ma poi sono esplosi. È il caso della Brexit, come spiega Andrés Rodríguez-Pose, economista che ha studiato il legame fra il declino economico e l’ascesa del populismo: «La Brexit è un voto di vendetta dei luoghi marginali, che non sono stati toccati dalla crescita. L’Inghilterra ha investito tutto su Londra, pensando che per osmosi avrebbe trascinato l’intero paese verso la ricchezza. Invece si è formata una spaccatura. La gente di Manchester, Leeds, Sheffield avrebbe votato contro qualsiasi iniziativa appoggiata da Londra. Lo stesso è avvenuto in Francia, dove Marine Le Pen ha vinto nelle regioni del Nord Est, segnate dal declino economico e inascoltate. Il loro, dunque, non è un voto contro l’Europa, ma una protesta contro le élite che vivono nel benessere. Infatti lo stesso fenomeno accade in Argentina, Perù, Bolivia e Venezuela, persino in Thailandia, un paese diviso in due. Da un lato Bangkok e le aree turistiche del Sud che votano per i democratici, dall’altro il Nord, povero e arretrato, che vota per il partito populista. Qui la frammentazione ha creato un conflitto che ha bloccato la crescita economica del paese. In Italia le cose vanno nello stesso modo, le aree dimenticate hanno votato Cinque Stelle e Lega».

È il caso di Tolve, un paesino della Basilicata che fino a qualche anno fa viveva della produzione di grano, business azzoppato dalle importazioni canadesi a buon mercato. A Tolve, un tempo roccaforte dei democratici, ha stravinto il candidato della Lega, Pasquale Pepe, l’unico che sta cercando di invertire la rotta lanciando una campagna a favore dei servizi essenziali: all’uninominale ha preso il 55 per cento delle preferenze. «Anche il voto ai Cinque Stelle e alla Lega venuto dalla rossa Emilia Romagna è un indicatore importante della sofferenza dei distretti industriali, dove le nuove forme di economia della conoscenza stanno attecchendo poco e dove ci vorrebbe una maggiore rete di attenzione», spiega Rodríguez-Pose. Esemplare è il caso dell’Unione dei sette comuni dell’Appennino Reggiano, una zona dove vivono 33 mila abitanti in crisi.

L’assenza di lavoro ha provocato lo spopolamento delle valli. Negli ultimi quattro anni, spiega Enrico Bini, presidente dei comuni montani, il territorio è entrato a far parte del progetto nazionale Snai «e abbiamo interpellato 350 persone per coinvolgerle nella rigenerazione del territorio. Abbiamo rilanciato un plesso scolastico specializzato nell’elettronica e meccatronica, anche grazie alla vicinanza di un’azienda, la Elettric80, che assume i giovani usciti dalla scuola. Questo ci ha permesso di diventare un polo attrattivo per 1.500 ragazzi che arrivano anche da Modena e Parma, ai quali vorremmo offrire un servizio autobus migliore, visto che passano tre ore al giorno sui mezzi di trasporto». C’è un però. Circa sei mesi fa le amministrazioni regionali hanno imposto la chiusura dell’unico punto nascite del territorio. È bastato questo segnale di abbandono per compromettere l’intera strategia locale e spingere un territorio tradizionalmente democratico a voltare le spalle al centro sinistra e far stravincere Lega e M5S. «Qui i progetti stanno andando avanti spediti, c’è un piano per sostenere il Parmigiano Reggiano di montagna, e trenta giovani si sono trasferiti qui per lanciare due cooperative di comunità a favore del turismo sostenibile. Tuttavia, questi sono cittadini che per troppo tempo hanno vissuto il disagio economico e sociale ed è bastata la chiusura del reparto ostetricia per spezzare i timidi tentativi di vivacità locale», spiega Bini.

Valeria Fedeli, professoressa di Architettura del Politecnico di Milano che ha realizzato l’atlante nazionale digitale postmetropoli.it, una miniera di informazioni sul nostro paese, nel suo lavoro ha scoperto che «alcuni distretti produttivi locali hanno perso la propria forte coesione interna. A Saronno, nella Brianza milanese, a Lumezzane, in Val Trompia si registra una flessione dei flussi interni, accompagnata da un incremento della ricerca di lavoro nelle aree esterne. Il volume di persone che si sposta da quelle zone per cercare lavoro a Milano è impressionante», spiega la docente, che fa notare come oggi si viaggi sempre più per lavoro, specialmente in direzione delle grandi capitali economiche, la cui area di influenza si allarga, in controtendenza rispetto a quanto succedeva fino a 10 anni fa.

«C’è una faglia che vede i cittadini delle aree rurali, della provincia, fuori dall’orizzonte delle élite nazionali, penalizzati nei servizi pubblici e privati e nelle scelte di investimento, mortificati talora come luoghi di svago e nostalgia», commenta Fabrizio Barca, che per primo ha lanciato e seguito il progetto Snai Italia, sostenendo un metodo bottom up, dal basso verso l’alto, «perché le politiche imposte da Roma non sanno interpretare le necessità locali, mentre la strategia deve venire dalle persone che vivono lì e ne conoscono le peculiarità», spiega Barca. Succede in Val Maira, dove Roberto Colombero dal 2009 è sindaco del comune di Canosio, che fa 90 abitanti, e presidente dell’Unione Montana della valle che conta 13 comuni.

«Siamo riusciti a fermare l’emorragia di giovani, ma non possiamo ancora dire che i cittadini della valle abbiano gli stessi diritti di quelli di città. C’è ancora molto lavoro da fare». Insieme ai sindaci e alla gente del posto, Colombero ha lanciato un progetto per capire quali fossero gli interventi da mettere in atto così da diventare una valle attrattiva. Da qui l’idea di investire su una scuola di alta qualità, su servizi di trasporto a chiamata e sullo sfruttamento delle risorse – l’acqua e la legna – per diventare autonomi dal punto di vista energetico e farne una fonte di ricchezza economica. A questo si aggiunge un enorme business turistico, che dà lavoro e attrae tedeschi, svizzeri e austriaci, affascinati da centinaia di sentieri curatissimi e dalle locande, dai rifugi e dagli agriturismi che offrono uno spaccato della cultura occitana».

Al contrario i siciliani delle Madonie, un territorio che dista poco meno di un’ora d’auto da qualsiasi servizio pubblico, hanno deciso di puntare tutto sulla scienza creando un parco astronomico di rilievo mondiale. Il cielo delle Madonie è noto in campo astronomico per l’elevato numero di notti fotometriche, cioè quelle in cui le stelle sono scientificamente osservabili: questa risorsa è stata sfruttata per realizzare il Telescopio Fly-Eye, unico al mondo, per la scoperta e il monitoraggio di detriti spaziali e asteroidi pericolosi per la Terra. La proiezione esterna del territorio delle Madonie viene anche da Ypsigrock, il festival di musica indie organizzato a Castelbuono dal 1997, con un pubblico proveniente da tutta Europa. Sono bastate queste attrattive per richiamare sul territorio i primi giovani che, inseme a Slow Food stanno rilanciando le coltivazioni locali per vendere i grani antichi e l’albicocca di Scillato ai locali più glamour di New York.

I cambiamenti sono lenti, lentissimi. E resta da capire se davvero sia possibile ridurre le diseguaglianze fra città e provincia. Secondo il sociologo Aldo Bonomi la risposta è affermativa: «I tempi di adattamento a un nuovo modello urbano saranno lunghissimi e la svolta arriverà quando, oltre alle smart city, potremo aver smart land mettendo le mille piccole città italiane al passo delle metropoli, ridisegnandone le funzioni, affinché tutte tornino a essere un nodo del flusso, creando nuova vitalità. ». Perché, per dirla con le parole dello storico Fernand Braudel, non esiste città ricca senza una campagna florida.

11 Settembre 2018/0 Commenti/da Daniele Valle

Per promuovere la sostenibilità bisogna essere radicali

Cosa Penso
CORRIERE DELLA SERA – OPINIONI
20 luglio 2018 – 17:20

di Mario Calderini

Ricorderemo questi mesi come quelli nei quali è diventato evidente, su scala globale, quale sia il prezzo vero ed ultimo della non sostenibilità: lo sgretolamento delle istituzioni, lo svuotamento culturale e valoriale delle stesse e le conseguenti imprevedibili trasformazioni sociali e del nostro vivere civile. Indugio su questa riflessione dopo aver ascoltato Enrico Giovannini presso la Fondazione Feltrinelli, e penso che benché avessimo previsto un conto salatissimo per la sostenibilità mancata, lo avevamo immaginato differito nel tempo e non certo in questa forma così improvvisa a violenta. E invece il frutto avvelenato di un modello di crescita non sostenibile si presenta oggi ed improvvisamente in forma di diseguaglianza, esclusione e rabbia sociale. Da questo nasce l’urgenza e l’imperativo di ridefinire i termini dell’agenda di sostenibilità, passando dalla fase dell’advocacy e della narrativa alla fase della radicalità. Radicalità significa non accondiscendere, in campo finanziario o imprenditoriale, ad interpretazioni di maniera del concetto di sostenibilità, relegandolo ad una dimensione di marginalità e lateralità. Radicalità significa per imprenditori, investitori e filantropi riconoscere l’insostenibilità di un modello nel quale si allocano risorse proprio a quelle attività che generano squilibri e diseguaglianza per poi tentare di mitigare le conseguenze delle stesse con azioni compensative di supposta responsabilità. Radicalità significa anche non confondere le ovvie esternalità positive che ogni investimento in un’impresa ben gestita è in grado di generare, con un impatto sociale o ambientale intenzionalmente perseguito e raggiunto.

La responsabilità sociale d’impresa genericamente intesa non è radicale, così come non lo è la finanza che si compiace nell’aggettivarsi etica, sociale, sostenibile o verde. Non è radicale quell’esercizietto rendicontativo che è il bilancio sociale o ambientale, non è radicale il richiamo ossessivo e consolatorio ai criteri ESG. Tutto virtuoso, importante ed apprezzabile, in quanto in linea con i fondamentali obiettivi di Agenda 2030, ma privo della radicale capacità trasformativa che è oggi necessaria per contenere la deriva sociale e istituzionale. Ed è proprio la capacità trasformativa il segno che deve qualificare le azioni che ambiscono ad iscriversi in un’agenda di sostenibilità robusta, concreta e strutturata. Capacità trasformativa che si declina nella ricerca di soluzioni a problemi sociali emergenti con modelli di intervento caratterizzati da intenzionalità, misurabilità e addizionalità. Intenzionalità significa incorporare inscindibilmente la ricerca della soluzione nel modello di intervento o di business, eventualmente accettando consapevolmente di sacrificare parte del risultato economico, misurabilità significa saper dare conto della soluzione raggiunta, addizionalità significa farlo in aree di intervento nelle quali i normali meccanismi di mercato non funzionano appropriatamente. Se è per certi versi scontata l’applicabilità di questi criteri nel terzo settore, molto più selettiva è l’applicazione degli stessi alle forme di impresa o di attività finanziaria che operano nei settori tradizionali.

La radicalità consiste, a mio parere, nel distinguere selettivamente sulla base di questi criteri, non per separare buoni e cattivi o giusti e sbagliati, ma semplicemente per dare i nomi giusti alle cose giuste. Perché se tutto è sostenibilità, nulla è sostenibilità, se tutto è responsabilità d’impresa, nulla è responsabilità di impresa, se tutto è impatto sociale, nulla è impatto sociale. Proprio il settore finanziario è oggi un esempio plastico della possibile deriva strumentale che può assumere l’adesione massiva alla narrativa della sostenibilità e dell’impatto sociale cui stiamo assistendo. Il 2018 sarà ricordato come l’anno della finanza ad impatto sociale, per numero e rilevanza delle iniziative. Una buona notizia dunque, perché se intendiamo l’impact investing come l’insieme degli strumenti definiti dai tre criteri sopra descritti, significa che si stanno liberando risorse al servizio di una grande azione trasformativa, sostenendo imprenditori capaci di trovare soluzioni innovative, concrete e di grande scala alla diseguaglianza, all’esclusione e al disagio. Una pessima notizia invece, se questa proliferazione si traduce semplicemente in impact-washing, una vuota ri-etichettatura di strumenti finanziari del tutto sconnessi da bisogni e problemi reali e dalle relative soluzioni. Perché, le soluzioni, in fondo, sono l’unica cosa che veramente conta.

*School of Management Politecnico Milano

26 Luglio 2018/0 Commenti/da Daniele Valle

La petizione Welcoming Europe, con l’umanità che soffre per salvare la nostra

Cosa Penso
[QUI l’articolo originale su AVVENIRE.IT – martedì 17 luglio 2018]

Porti che si chiudono. Muri che si alzano. Frontiere che ritornano. Centinaia di disperati in fuga dalla guerra, dalla povertà, dalla fame non sono più accolti come persone, ma considerati una massa indistinta da respingere, numeri senza volto da dislocare. Le motivazioni che spingono uomini, donne e bambini a lasciare tutto e ad attraversare il deserto e il mare a rischio della vita, le loro storie, le loro aspirazioni, sembrano interessare a pochi.

Di fronte alla sfida globale delle migrazioni, l’Europa – che all’indomani della seconda guerra mondiale e dell’Olocausto aveva saputo risollevarsi e promuovere una politica di pace e solidarietà tra i popoli – pare aver smarrito alcuni valori comuni e quei princìpi di civiltà su cui si fonda. A prevalere sono egoismi, chiusure e, sempre più spesso, l’aperto rifiuto di accogliere chi nel continente cerca protezione o un futuro diverso per sé e i propri cari.

Come rappresentanti di enti ispirati dal messaggio evangelico e impegnati a vario titolo nell’ambito delle migrazioni e del sostegno ai più fragili tra i nostri concittadini, siamo preoccupati per il clima di disprezzo che viene continuamente alimentato. Davvero l’umanità si è degradata a tal punto? Davvero il sentimento oggi prevalente nella nostra società è l’indifferenza verso la sorte di altri esseri umani? Confortati e sollecitati dalle parole di papa Francesco, noi non crediamo che ci si debba arrendere all’idea che i sentimenti di fraternità, solidarietà e accoglienza, che sono all’essenza del Vangelo e le radici dell’Europa unita, non riescano più a scuotere le coscienze delle persone.

Al contrario, siamo convinti che sia importante lavorare sul piano culturale per promuovere un racconto diverso del fenomeno migratorio e, in quest’ottica, consideriamo incoraggianti le prese di posizione come quella della Corte costituzionale francese, che ha recentemente decretato che aiutare i migranti non è reato e che vale il principio della ‘fraternità’. Pensiamo che, sul piano politico, ci sia bisogno di un approccio inclusivo capace di allargare la cittadinanza e di promuovere coesione sociale e sicurezza per tutti. Per questo, un anno fa, abbiamo sostenuto in Italia la proposta di legge di iniziativa popolare ‘Ero Straniero’ e la riforma della cittadinanza in favore dello ius sol temperato e dello ius culturae.

Per questo oggi sosteniamo l’Iniziativa dei Cittadini Europei «Welcoming Europe. Per un’Europa che accoglie», che, partendo dal principio irrinunciabile per cui ogni vita va protetta e salvata, chiede di decriminalizzare la solidarietà, creare passaggi sicuri per i rifugiati e proteggere le vittime di abusi. L’obiettivo è raccogliere un milione di firme in almeno sette Paesi dell’Unione Europea, per invitare la Commissione a presentare un atto legislativo in materia di immigrazione. Invitiamo tutti a conoscere la proposta e a firmarla online sul sito www.welcomingeurope.it.Ribadiamo che prima di tutto vengono le persone con la loro dignità e riteniamo quindi necessario far riemergere il patrimonio di solidarietà e fraternità che, pur presente, oggi fatica a manifestarsi. Lo dobbiamo fare non solo per salvare vite che rischiano di essere cancellate, ma per salvare l’umanità che è in noi.

don Virginio Colmegna, Fondazione Casa della carità ‘A. Abriani’

padre Claudio Gnesotto, Agenzia Scalabriniana per la Cooperazione allo Sviluppo

padre Camillo Ripamonti, Centro Astalli

don Armando Zappolini, Cnca – Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza

25 Luglio 2018/0 Commenti/da Daniele Valle

POPULISMO? COLPA NOSTRA

Cosa Penso

Per contrastarlo occorre partire dall’autocritica. E dall’alleanza per il progresso globale

Testo di Matt Browne (Fondatore del think thank Global Progress)
pubblicato da “la Stampa” – Traduzione di Carla Reschia

Nella lotta contro l’ ondata populista e autoritaria non c’è alcuna pallottola d’argento risolutiva. Sarà un lungo percorso che ci richiederà di cambiare rotta riguardo alla disuguaglianza, rispondere sinceramente alle preoccupazioni degli elettori, ricostruire e rinnovare il contratto e il capitale sociale, aggiornare e salvaguardare le istituzioni essenziali.

Senza dubbio il modo migliore per iniziare questo viaggio è valutare i nostri errori e pensare a come dobbiamo cambiare.

Non c’ è nulla di intrinsecamente virtuoso nella pratica politica tradizionale degli ultimi decenni, né in quella di centro-sinistra né in quella di centro-destra. Molti di noi non sono riusciti a stare al passo con i tempi nel modo di comunicare, di organizzarsi e impegnarsi. Quale che sia l’ approccio che adottiamo, bisognerà affrontare le legittime critiche all’ establishment politico.

In primo luogo, quando si parla di politica, le nostre piattaforme non possono essere completamente slegate dai desideri degli elettori. Dobbiamo rispondere con serietà, onestà e in modo esauriente alle preoccupazioni dell’elettorato sull’ immigrazione, l’ irresponsabilità dei potenti interessi che agiscono nel mondo degli affari o del settore pubblico e sulla rivoluzione tecnologica in atto.

Se prendiamo atto, ad esempio, che negli ultimi due decenni nell’ economia globale sono avvenuti cambiamenti epocali, è forse giunto il momento di accettare l’ idea che alcuni piccoli aggiustamenti alla politica economica e la riforma dello Stato sociale siano una risposta inadeguata.

Spesso ignoriamo che uno dei temi centrali della campagna di Trump era il lavoro. Che si sia o meno a favore del reddito di cittadinanza – io non lo sono – è giunto il momento di pensare in modo radicale a una nuova agenda economica di inclusione e responsabilizzazione.

Tutte le idee, compresa la garanzia del diritto al lavoro o all’ occupazione, dovrebbero rappresentare una gradita aggiunta a questo dibattito.

RIDEFINIRE IL PATRIOTTISMO

Allo stesso modo, le preoccupazioni sull’ immigrazione, l’ integrazione e la sicurezza hanno trasformato radicalmente la politica in tutto il mondo occidentale – sono state senza dubbio al centro del voto sulla Brexit in Gran Bretagna e dell’ elezione di Donald Trump negli Stati Uniti. Si può benissimo non essere d’accordo con la maggior parte degli elettori in materia di immigrazione e deplorare il modo in cui l’argomento è stato stravolto dagli estremisti e dalla stampa scandalistica – io sicuramente sono su questa posizione.

Ma è impossibile ignorarlo, tanto meno pretendere che al riguardo l’opinione pubblica sia agnostica. Arriverei a dire che è questa oggi la principale linea di frattura nelle elezioni occidentali. Resto del parere che si possa proporre una politica progressista di migrazione gestita.

Ma nel farlo dobbiamo partire dal reale orientamento delle persone, non da quello che vorremmo avessero, e dimostrare che abbiamo il controllo della situazione e abbiamo un piano. Attualmente gli elettori si sentono traditi dalla nostra posizione e dalla nostra retorica. Persino Emmanual Macron, forse il più eloquente sostenitore di una società aperta nell’attuale panorama politico europeo, ha dato un giro di vite alle leggi francesi sull’ immigrazione e l’asilo.

In secondo luogo, dobbiamo riformare la nostra politica. Per iniziare, dobbiamo smettere di essere condiscendenti e paternalistici. Parte dell’attrattiva della politica culturale è la percezione che le élite centriste siano troppo sbrigative nel respingere o etichettare alcuni elettori. Negli Stati Uniti gli ormai famigerati commenti dell’ ex presidente Barack Obama sulle persone che «si attaccano alle armi o alla religione» hanno contribuito alla convinzione che la società sia effettivamente divisa tra un’ élite condiscendente e la gente comune, proprio come sostengono i populisti.

Le argomentazioni secondo cui alcuni aspetti dell’ integrazione e dell’ assimilazione non stanno andando bene in alcune società occidentali – o che il cambiamento sociale e economico è troppo rapido – non dovrebbero essere automaticamente etichettate come razziste, bigotte o luddiste. Dobbiamo iniziare dal punto in cui si trovano gli elettori, prendere sul serio le loro preoccupazioni e trattarli con rispetto.

Abbiamo anche bisogno di sviluppare una nostra politica di identità inclusiva. Il senso di appartenenza a una comunità politica non è necessariamente una forma di bigottismo. Anche se i populisti autoritari sfruttano i sentimenti patriottici per ricreare un’ idea nostalgica di un passato più semplice e più puro, i politici tradizionali non dovrebbero rifuggire il patriottismo. Dovrebbero, invece, cercare di usare la stessa emozione per mostrare una visione positiva, tollerante, diversificata e inclusiva dell’ identità nazionale.

Vale a dire, dobbiamo rivendicare e ridefinire il patriottismo. I politici in gamba possono riscattare il patriottismo dai sovranisti. In terzo luogo dobbiamo rendere la società più democratica. Uno dei fattori che veicolano insicurezza e frustrazione nelle nostre società è la sensazione diffusa di aver perso il controllo della propria vita.

A questo risponde la promessa populista di togliere il potere a una élite corrotta o compromessa per affidarlo a un leader forte che governi in nome del popolo. Questa non è democratizzazione, però, ma un’ ulteriore centralizzazione del potere. La nostra risposta dovrebbe essere quella di democratizzare veramente il potere, di rimetterlo nelle mani delle persone.

Per dare loro un senso di controllo sulla propria vita, sul lavoro e sulla comunità. Si tratta di una vecchia agenda progressista, ma per troppo tempo non siamo riusciti ad applicarla. È ora che i progressisti sostengano il ruolo dei lavoratori nei consigli di amministrazione, sperimentino forme di democrazia locale, diretta e deliberativa, e promuovano forme appropriate di sussidiarietà in materia di polizia, istruzione e politica sanitaria.

Ciò richiede una visione coerente per riprogettare le istituzioni. Avendone l’ occasione, dobbiamo rafforzare le istituzioni, in particolare la magistratura indipendente.

Ma dovremmo andare oltre. Abbiamo bisogno di rinnovare altre istituzioni governative per adeguarle all’ era digitale. E occorre anche rendere il governo più trasparente e aperto e i servizi pubblici più sensibili ai bisogni di chi li utilizza.

L’ alternativa all’ autoritarismo In quarto luogo, le nostre politiche devono diventare globali. Naturalmente, la lotta per le peculiarità delle singole società europee e occidentali dev’ essere combattuta separatamente in ogni Paese. Né l’ Unione Europea né il Consiglio d’ Europa, tanto meno l’ alleanza transatlantica, possono essere di grande aiuto nel contrastare l’ autoritarismo nazionale e fornire un’ alternativa. Eppure, contro il potere del capitale in ambito nazionale è difficile per un governo misurarsi faccia a faccia in modo efficace con le multinazionali.

Allo stesso modo, il rafforzamento dei diritti dei lavoratori a livello nazionale non sempre garantisce che otterranno una quota più equa dei redditi.

Dal momento che molto a livello globale è in mano alle multinazionali, abbiamo bisogno di un’ azione internazionale multilaterale. Se questi organismi non ispirano più fiducia, dobbiamo rinnovarli.

Abbiamo bisogno di una Bretton Woods democratica per affrontare le multinazionali.

Molte delle soluzioni alle sfide economiche locali sono tanto globali quanto locali e lo stesso vale per la sicurezza, l’ immigrazione e l’ identità. La globalizzazione della nostra politica dev’ essere anche un progetto individuale e comunitario. Non ci sarà scampo da Salvini, Brexit o Trump fino a quando non capiremo e ci occuperemo del perché le persone hanno votato per loro. Come movimento globale, abbiamo bisogno di passare più tempo a capire il fascino dei populisti di quanto ne passiamo invece a criticarli.

Questo è un volo globale e nessuno di noi dovrebbe sentirsi solo. Salvini ha già annunciato la sua intenzione di creare una Lega delle leghe – un’ alleanza globale di populisti autoritari. Ha già la sua alleanza con la Russia Unita di Putin. Noi dovremmo rafforzare la nostra alleanza per il progresso globale. Se vinceremo questa battaglia, potremo ancora una volta essere il fondamento di un’ alleanza di democrazie in tutto il mondo.

 

25 Luglio 2018/0 Commenti/da Daniele Valle

CONTRO IL TAGLIO COMUNALE ALLE SCUOLE PARITARIE

Cosa Penso

COMUNICATO STAMPA

Torino 29/11/2017

L’Assessore al Bilancio del Comune di Torino, Rolando, ha confermato per il 2018 un taglio di 500 mila euro sui fondi previsti per le scuole paritarie. Questa dotazione, che per le casse del Comune corrisponde ad una cifra molto piccola, è invece importantissima per le scuole che si trovano oggi a fare i conti con ritardi nei pagamenti e con una riduzione dei fondi. Una situazione del genere si ripercuote da un lato sul personale coinvolto che non viene pagato a causa dei ritardi e dall’altro sul potenziale di accoglienza delle scuole paritarie, che ad oggi risultano coprire ben un 1/3 del fabbisogno delle famiglie torinesi, nella maggioranza dei casi riferito a bambini esclusi dalle altre strutture.

“E’ profondamente ingiusto giocare in questo modo sulla pelle dei bambini ed è paradossale che questa amministrazione decida di recuperare risorse tagliando proprio servizi essenziali come questo. Peraltro come Regione Piemonte nell’ultimo assestamento di bilancio abbiamo inserito 2 milioni in più di fondi per le scuole paritarie!”, dichiara Daniele Valle, Consigliere regionale del PD.

“Sono quindi al fianco delle scuole paritarie e dei genitori che hanno tenuto un girotondo di protesta di fronte al Comune alcuni giorni fa, per chiedere alcune cose sacrosante: ripristino dei fondi destinati alle paritarie,aumento del fondo riservato all’handicap e rispetto dei tempi e dei termini di pagamento relativi al 2016 e 2017. Non possiamo rischiare che un numero crescente di bambini resti a casa, con un danno enorme per le famiglie e per il sistema di istruzione. Si intervenga quanto prima”, conclude Valle.

29 Novembre 2017/0 Commenti/da Daniele Valle
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