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Articoli

IN ITALIA SE NASCI POVERO, RESTI POVERO

Cosa Penso

NEL NOSTRO PAESE L’ASCENSORE SOCIALE SI E’ BLOCCATO. DA NOI QUASI LA METÀ DEL REDDITO DEI FIGLI DIPENDE DA QUELLO DEI GENITORI -QUANTO A DISEGUAGLIANZA DELLE OPPORTUNITA’ SUPERIAMO ANCHE REGNO UNITO E USA – NUMERI E CAUSE DI UN RAPPORTO PREOCCUPANTE.

 

06 settembre 2018, Roberta Carlini per espresso.repubblica.it (QUI L’ARTICOLO SU L’ESPRESSO)

 

Esiste un record negativo italiano che non è misurabile in debito pubblico, deficit, giovani Neet, evasione fiscale. Ma a guardarlo da vicino fa paura almeno quanto i primi. È l’immobilità sociale, o meglio: quanto della tua vita dipende dalla famiglia in cui sei nato.

Si può misurare in tanti modi ma, comunque la contiamo, l’Italia svetta in Europa, e di gran lunga. Lo rivelano i dati del più grande database sulla mobilità sociale nel mondo, costruito dalla Banca mondiale e illustrato nel rapporto “Fair Progress”. Tra i quali una buona parte viene dal progetto-partner, a guida italiana, di Equalchances.org: sul sito, creato dal Dipartimento di economia e finanza dell’università di Bari, ciascuno può divertirsi – diciamo così – a controllare, per il proprio e per gli altri Paesi, il funzionamento dell’ascensore sociale, scorrendo gli indici della diseguaglianza di opportunità, trasmissione del reddito e dello status tra generazioni, mobilità nell’istruzione.

mobilità sociale
MOBILITÀ SOCIALE

 

E una cosa è certa: qualcosa si è inceppato, servirebbe un ascensorista. Con particolare urgenza per l’Italia, dove quasi la metà del reddito dei figli è determinata dal livello di quello dei padri: condizione unica nell’Europa continentale, paragonabile solo a quella di Regno Unito e Stati Uniti, per i Paesi sviluppati. Ma, quanto a diseguaglianza delle opportunità, superiamo anche i regni di Brexit e Trump.

Di padre in figlio

«Ogni giorno nel mondo nascono 400 mila bambini. Nessuno di loro sceglie il genere, l’appartenenza etnica, il luogo in cui si è venuti al mondo. Né le condizioni economiche e sociali della famiglia. Il punto di partenza della vita è una lotteria».

Così la Banca mondiale introduce il suo rapporto, che punta a dare il primo set di numeri a copertura mondiale sulla mobilità tra generazioni. Espressione con la quale si intendono due cose:

  • quanto, nella media, il livello di vita e benessere di una generazione è migliorato rispetto a quella precedente;
  • quanto la posizione di ciascuna persona sulla scala economica dipende da quella dei suoi genitori.

Normalmente, le due cose vanno insieme: periodi di forte crescita economica fanno fare salti di benessere da una generazione all’altra e rendono anche più facile ai figli emanciparsi dallo status dei genitori. È quello che è successo nel mondo occidentale negli anni Cinquanta, e sta succedendo ora in paesi come Cina e India. Ma attenzione, dice la Banca mondiale: non è automatico che questo succeda, e infatti anche in molti paesi in via di sviluppo la mobilità sociale da genitori a figli oggi è bloccata.

E poi c’è il contrappasso, quando la crescita si ferma e la marea che portava avanti tutte le barchette si ritira. Come è successo in tutti i paesi sviluppati e con particolare evidenza in Italia. «Per un certo numero di anni la crescita ha consentito a tutti di migliorare le proprie posizioni, sono stati fatti molti passi avanti soprattutto nel rapporto tra titoli di studio», spiega Vito Peragine, professore di economia politica all’università di Bari e collaboratore del progetto della Banca mondiale. I cui numeri permettono anche di confrontare la mobilità tra generazioni di oggi con quella di ieri, e ci dicono che «negli ultimi venti anni, da quando si è fermata la pur debole crescita economica, si è evidenziato il blocco dell’ascensore sociale».

Anzi, a dirla tutta lo stop ha evidenziato che quell’ascensore non ha mai funzionato bene: per esempio, l’Italia è uno di quei paesi nei quali non c’è uno stretto rapporto tra i progressi nel settore dell’istruzione e quelli nel reddito.

In altre parole, il titolo di studio dei genitori è meno importante di prima nel definire quello che avranno i figli – l’operaio può bene avere il figlio dottore, si è avverato l’incubo della contessa di Paolo Pietrangeli – ma è anche poco rilevante nel determinarele opportunità relative di lavoro, reddito, benessere.

In effetti, se si vanno a guardare i numeri di equalchances.org, e si confronta la generazione nata nel ’40 con quella dell’80 – l’ultima di cui si abbiano dati completi – si vede che a scuola l’ascensore ha funzionato. L’indice che misura la mobilità tra generazioni nell’istruzione – più alto il numero, più bassa la mobilità – è sceso da 0,57 a 0,33. È successo lo stesso in Francia, Germania, persino nel Regno Unito, mentre lo stesso indice è sceso di pochissimo, da 0,34 a 0,32, negli Stati Uniti dell’istruzione privatizzata.

Eppure, questo buon andamento in Italia non ha migliorato sostanzialmente la mobilità tra generazioni nel reddito, e non ha ridotto le diseguaglianze di opportunità. L’indice che misura la mobilità intergenerazionale dei redditi è in Italia a quota 0,48, contro lo 0,35 della Francia e lo 0,23 della Germania. Vuol dire che da noi quasi la metà del reddito dei figli dipende da quello dei genitori. È il più alto d’Europa – vicino a quello inglese – e nel mondo sviluppato inferiore solo a quello degli Stati Uniti, paesi dai quali siamo tuttavia molto distanti nella struttura sociale ed economica.

Le diseguali opportunità

Da cosa dipende questa eccezione italiana in Europa? E perché il grande balzo in avanti nell’istruzione non ha avuto grandi effetti di reddito e benessere? La stessa Banca mondiale ci aiuta a rispondere, ridimensionando un po’ il peso del fattore “istruzione”: anche se tutto il rapporto è dedicato proprio alla mobilità educativa (sia come dati che come politiche auspicate), vi si spiega anche che ci sono altre motivazioni della persistenza del reddito e del benessere da una generazione all’altra.

A parità di istruzione il peso della famiglia di origine – fatto di status sociale, conoscenze, relazioni amicali – torna prepotente e si fa sentire di più in contesti più fermi, con maggiore disoccupazione, minore apertura. Tutto ciò può spiegare il più scioccante dei numeri che si possono scoprire navigando nei dati: quelli della diseguaglianza di opportunità.

Qui superiamo anche Gran Bretagna e Stati Uniti, e per trovare paesi più in alto dobbiamo confrontarci con il Brasile, il Sud Africa, la Bulgaria. In particolare, spiega Vito Peragine, abbiamo un livello molto alto di diseguaglianza “relativa” delle opportunità, ossia di quella parte delle diseguaglianze spiegato esclusivamente dalla propria origine, dalla lotteria della nascita. Numeri che ne introducono altri, stavolta più soggettivi: quelli sulla percezione della propria posizione e quella dei propri figli. Secondo una indagine citata dalla Banca mondiale, gli italiano sono al penultimo posto – seguiti solo dalla Slovenia in pessimismo – nella previsione “i bambini che nascono oggi staranno meglio di noi”: otto su dieci non la pensano così. Mentre quasi 4 su 10 ritengono comunque di stare meglio dei propri genitori.

 

13 Settembre 2018/0 Commenti/da Daniele Valle

L’economia della conoscenza sta uccidendo la nostra provincia

Cosa Penso

L’aumento delle disuguaglianze è anche territoriale. E mentre le città diventano sempre più ricche, intorno è il declino. Un impoverimento che dilaga a macchia di leopardo, dal nord al Mezzogiorno

DI GLORIA RIVA – 15 maggio 2018 (QUI ARTICOLO ORIGINALE SU L’ESPRESSO)
La vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti, la Brexit benedetta dai cittadini del Regno Unito, l’ingresso del partito di ultra destra Alternative für Deutschland nel Bundestag tedesco, la schiacciante vittoria di Viktor Orbán in Ungheria e, ancora, l’Italia, con la vittoria elettorale di Lega e Cinque Stelle, portavoce di un malcontento diffuso. Questi avvenimenti, genericamente catalogati alla voce populismo, sono l’effetto di un nuovo modello economico basato non più sull’industria, bensì sulla conoscenza, il cui risultato è la diseguaglianza territoriale in vertiginoso aumento.

«Immaginatevi un mondo con poche e piccolissime isole di prosperità, immerse in un mare di povertà e stagnazione. Ci stiamo dirigendo lì», a parlare è l’economista Joan Rosés, professore alla London School of Economics, che insieme a Nikolaus Wolf, capo economico alla Humboldt University di Berlino, ha creato un algoritmo in grado di definire dove si sta accumulando la ricchezza.

A giugno uscirà il loro libro che promette di essere il secondo atto dell’inquietante descrizione fatta dal francese Thomas Piketty in “Il Capitale nel XXI secolo”, pubblicato nel 2013. Piketty mostrava come i ricchi sarebbero diventati sempre più ricchi perché i rendimenti del capitale accumulato dalle persone abbienti sono e saranno sempre maggiori rispetto alla crescita dell’economia reale, favorendo quindi la disuguaglianza. Insomma, l’economista ha previsto un ritorno all’Ottocento, quando un buon matrimonio era sempre più remunerativo di un qualsiasi lavoro danaroso.

Rosés e Wolf aggiungono che non solo la ricchezza si accumula nelle mani di pochi, ma si concentra in alcune aree, per lo più urbane, creando il vuoto intorno. Dati alla mano, l’hanno dimostrato nell’abstract “The return of regional inequality: Europe from 1900 to today”, dove si dimostra come il periodo di diffusione della ricchezza si è concluso a metà degli anni Ottanta, in concomitanza con la chiusura dell’epoca fordista e con la fine delle grandi fabbriche, per fare spazio all’economia della conoscenza e alla globalizzazione.

L’Italia è fra i paesi più colpiti da questo fenomeno di impoverimento diffuso. Tant’è che non è più possibile parlare di un Nord ricco e di un Sud povero, ma succede che i comuni più indigenti si trovino non troppo lontano dalla più ricca città italiana, Milano. Dalle dichiarazioni dei redditi 2017 si scopre che fra i dieci comuni con la media reddituale più bassa d’Italia ci sono i due municipi comaschi Cavargna e Val Rezzo, la trentina Dambel e ben quattro comuni della provincia di Verbano Cusio Ossola, che separa il Piemonte dalla Svizzera, si tratta di Cavaglio-Spoccia , Gurro, Falmenta e Cursolo-Orasso, record nazionale con una ricchezza pro capite di 5.568 euro l’anno, in crollo del 24 per cento rispetto a due anni fa.

I quattro comuni si trovano tutti nell’impervia e isolata val Cannobina dove, fino a qualche decennio fa, si viveva di coltivazione e allevamento. Poi la gente del posto è migrata in Ticino, dove l’industria prospera e lassù sono rimaste non più di 700 persone, sprovviste di tutto. Non c’è una scuola, un asilo nido, un pronto soccorso, una banca, un supermercato e le strade, soggette a frane, vengono chiuse di frequente: meno di un mese fa il collegamento con la Svizzera è stato interrotto per l’ennesimo smottamento in cui hanno perso la vita due persone. Sono valli e montagne dimenticate da dio e sono anche l’esempio perfetto dell’Italia mappata dalla Presidenza del consiglio all’interno della Snai, la Strategia Nazionale per le Aree Interne, cioè quelle zone in cui i servizi scarseggiano.

Le Aree Interne rappresentano oltre metà dei comuni italiani, ospitano meno di un quarto della popolazione, ma occupano il 60 per cento della superficie nazionale e, come dicono gli economisti Rosés e Wolf nel loro lavoro, quelle zone stanno aumentando. E non coinvolgono più le tradizionali aree del Centro Sud, ma anche zone del Nord, come l’altopiano di Asiago, un tempo distretto turistico importante, oggi cenerentola di Cortina d’Ampezzo che d’inverno e d’estate fa il tutto esaurito, mentre ad Asiago non si ferma nessuno. E ancora soffrono le Dolomiti friulane, che nonostante non abbiano nulla da invidiare a quelle trentine stentano a intercettare la crescita economica: dopo la chiusura delle caserme al confine, non trovato altra fonte di reddito, ed è sfumato il tentativo di fare del monte Coglians, un tempo presidio militare, un luogo di prosperità.

C’è di più, Rosés sostiene che in Italia l’aumento delle disuguaglianze porterà anche alla fine del modello dei distretti industriali, spazzati via dalla nuova tendenza dei capitali ad accentrarsi nelle città più forti: «Il boom economico aveva portato all’Italia una fase di espansione e diffusione del benessere nelle province, perché è lì che gli imprenditori hanno aperto gli stabilimenti, facendo proliferare i distretti produttivi industriali. Oggi, invece, l’economia della conoscenza tende ad accentrare i migliori capitali umani nella città. Quest’ultima ha bisogno di poche persone molto istruite e ciò sta creando poli di estrema ricchezza e benessere, lasciando tutti gli altri al palo.

Questo fenomeno si sta verificando ovunque. In Cina la ricchezza delle città intellettualmente avanzate si scontra con l’arretratezza culturale e il disagio economico e sociale delle zone periferiche, delle campagne, delle aree dimenticate; in Spagna, Barcellona fa da locomotiva con i suoi centri d’eccellenza per la grafica e il design, mentre il resto del paese va al traino; Londra risucchia il 20 per cento delle società che al mondo si occupano di programmazione e informatica, staccando il resto dell’Inghilterra di parecchi punti di pil; lo stesso succede negli Stati Uniti, dove Los Angeles, San Francisco e New York diventano sempre più ricche rispetto alla media nazionale».

Città in salute e attrattive contro piccoli centri poveri e svuotati. Questo stesso fenomeno era stato individuato già all’inizio del Duemila dall’economista polacca e commissario europeo alle politiche regionali Danuta Hubner, che insieme all’italiano Fabrizio Barca, ex ministro del governo Monti, si era resa conto che la globalizzazione e l’abbattimento delle barriere intraeuropee stavano aprendo una profonda frattura, portatrice di diseguaglianza. Hubner e Barca avevano previsto il massiccio spostamento delle persone verso le aree più ricche e, per invertire la rotta, avevano cercato di attivare un sistema di politiche di coesione sociale per contrastare il fenomeno. Ma in molte zone il sostegno si è limitato a finanziamenti a pioggia, alla creazione di infrastrutture inutili, a clientelismi a favore dei politici locali che per qualche anno sono serviti a sedare rabbia e malcontento.

Ma poi sono esplosi. È il caso della Brexit, come spiega Andrés Rodríguez-Pose, economista che ha studiato il legame fra il declino economico e l’ascesa del populismo: «La Brexit è un voto di vendetta dei luoghi marginali, che non sono stati toccati dalla crescita. L’Inghilterra ha investito tutto su Londra, pensando che per osmosi avrebbe trascinato l’intero paese verso la ricchezza. Invece si è formata una spaccatura. La gente di Manchester, Leeds, Sheffield avrebbe votato contro qualsiasi iniziativa appoggiata da Londra. Lo stesso è avvenuto in Francia, dove Marine Le Pen ha vinto nelle regioni del Nord Est, segnate dal declino economico e inascoltate. Il loro, dunque, non è un voto contro l’Europa, ma una protesta contro le élite che vivono nel benessere. Infatti lo stesso fenomeno accade in Argentina, Perù, Bolivia e Venezuela, persino in Thailandia, un paese diviso in due. Da un lato Bangkok e le aree turistiche del Sud che votano per i democratici, dall’altro il Nord, povero e arretrato, che vota per il partito populista. Qui la frammentazione ha creato un conflitto che ha bloccato la crescita economica del paese. In Italia le cose vanno nello stesso modo, le aree dimenticate hanno votato Cinque Stelle e Lega».

È il caso di Tolve, un paesino della Basilicata che fino a qualche anno fa viveva della produzione di grano, business azzoppato dalle importazioni canadesi a buon mercato. A Tolve, un tempo roccaforte dei democratici, ha stravinto il candidato della Lega, Pasquale Pepe, l’unico che sta cercando di invertire la rotta lanciando una campagna a favore dei servizi essenziali: all’uninominale ha preso il 55 per cento delle preferenze. «Anche il voto ai Cinque Stelle e alla Lega venuto dalla rossa Emilia Romagna è un indicatore importante della sofferenza dei distretti industriali, dove le nuove forme di economia della conoscenza stanno attecchendo poco e dove ci vorrebbe una maggiore rete di attenzione», spiega Rodríguez-Pose. Esemplare è il caso dell’Unione dei sette comuni dell’Appennino Reggiano, una zona dove vivono 33 mila abitanti in crisi.

L’assenza di lavoro ha provocato lo spopolamento delle valli. Negli ultimi quattro anni, spiega Enrico Bini, presidente dei comuni montani, il territorio è entrato a far parte del progetto nazionale Snai «e abbiamo interpellato 350 persone per coinvolgerle nella rigenerazione del territorio. Abbiamo rilanciato un plesso scolastico specializzato nell’elettronica e meccatronica, anche grazie alla vicinanza di un’azienda, la Elettric80, che assume i giovani usciti dalla scuola. Questo ci ha permesso di diventare un polo attrattivo per 1.500 ragazzi che arrivano anche da Modena e Parma, ai quali vorremmo offrire un servizio autobus migliore, visto che passano tre ore al giorno sui mezzi di trasporto». C’è un però. Circa sei mesi fa le amministrazioni regionali hanno imposto la chiusura dell’unico punto nascite del territorio. È bastato questo segnale di abbandono per compromettere l’intera strategia locale e spingere un territorio tradizionalmente democratico a voltare le spalle al centro sinistra e far stravincere Lega e M5S. «Qui i progetti stanno andando avanti spediti, c’è un piano per sostenere il Parmigiano Reggiano di montagna, e trenta giovani si sono trasferiti qui per lanciare due cooperative di comunità a favore del turismo sostenibile. Tuttavia, questi sono cittadini che per troppo tempo hanno vissuto il disagio economico e sociale ed è bastata la chiusura del reparto ostetricia per spezzare i timidi tentativi di vivacità locale», spiega Bini.

Valeria Fedeli, professoressa di Architettura del Politecnico di Milano che ha realizzato l’atlante nazionale digitale postmetropoli.it, una miniera di informazioni sul nostro paese, nel suo lavoro ha scoperto che «alcuni distretti produttivi locali hanno perso la propria forte coesione interna. A Saronno, nella Brianza milanese, a Lumezzane, in Val Trompia si registra una flessione dei flussi interni, accompagnata da un incremento della ricerca di lavoro nelle aree esterne. Il volume di persone che si sposta da quelle zone per cercare lavoro a Milano è impressionante», spiega la docente, che fa notare come oggi si viaggi sempre più per lavoro, specialmente in direzione delle grandi capitali economiche, la cui area di influenza si allarga, in controtendenza rispetto a quanto succedeva fino a 10 anni fa.

«C’è una faglia che vede i cittadini delle aree rurali, della provincia, fuori dall’orizzonte delle élite nazionali, penalizzati nei servizi pubblici e privati e nelle scelte di investimento, mortificati talora come luoghi di svago e nostalgia», commenta Fabrizio Barca, che per primo ha lanciato e seguito il progetto Snai Italia, sostenendo un metodo bottom up, dal basso verso l’alto, «perché le politiche imposte da Roma non sanno interpretare le necessità locali, mentre la strategia deve venire dalle persone che vivono lì e ne conoscono le peculiarità», spiega Barca. Succede in Val Maira, dove Roberto Colombero dal 2009 è sindaco del comune di Canosio, che fa 90 abitanti, e presidente dell’Unione Montana della valle che conta 13 comuni.

«Siamo riusciti a fermare l’emorragia di giovani, ma non possiamo ancora dire che i cittadini della valle abbiano gli stessi diritti di quelli di città. C’è ancora molto lavoro da fare». Insieme ai sindaci e alla gente del posto, Colombero ha lanciato un progetto per capire quali fossero gli interventi da mettere in atto così da diventare una valle attrattiva. Da qui l’idea di investire su una scuola di alta qualità, su servizi di trasporto a chiamata e sullo sfruttamento delle risorse – l’acqua e la legna – per diventare autonomi dal punto di vista energetico e farne una fonte di ricchezza economica. A questo si aggiunge un enorme business turistico, che dà lavoro e attrae tedeschi, svizzeri e austriaci, affascinati da centinaia di sentieri curatissimi e dalle locande, dai rifugi e dagli agriturismi che offrono uno spaccato della cultura occitana».

Al contrario i siciliani delle Madonie, un territorio che dista poco meno di un’ora d’auto da qualsiasi servizio pubblico, hanno deciso di puntare tutto sulla scienza creando un parco astronomico di rilievo mondiale. Il cielo delle Madonie è noto in campo astronomico per l’elevato numero di notti fotometriche, cioè quelle in cui le stelle sono scientificamente osservabili: questa risorsa è stata sfruttata per realizzare il Telescopio Fly-Eye, unico al mondo, per la scoperta e il monitoraggio di detriti spaziali e asteroidi pericolosi per la Terra. La proiezione esterna del territorio delle Madonie viene anche da Ypsigrock, il festival di musica indie organizzato a Castelbuono dal 1997, con un pubblico proveniente da tutta Europa. Sono bastate queste attrattive per richiamare sul territorio i primi giovani che, inseme a Slow Food stanno rilanciando le coltivazioni locali per vendere i grani antichi e l’albicocca di Scillato ai locali più glamour di New York.

I cambiamenti sono lenti, lentissimi. E resta da capire se davvero sia possibile ridurre le diseguaglianze fra città e provincia. Secondo il sociologo Aldo Bonomi la risposta è affermativa: «I tempi di adattamento a un nuovo modello urbano saranno lunghissimi e la svolta arriverà quando, oltre alle smart city, potremo aver smart land mettendo le mille piccole città italiane al passo delle metropoli, ridisegnandone le funzioni, affinché tutte tornino a essere un nodo del flusso, creando nuova vitalità. ». Perché, per dirla con le parole dello storico Fernand Braudel, non esiste città ricca senza una campagna florida.

11 Settembre 2018/0 Commenti/da Daniele Valle

NUOVA LEGGE SUGLI SPORT MONTANI

In Regione

Durante il Consiglio Regionale di oggi, martedì 31 gennaio 2017, abbiamo approvato la nuova legge regionale in materia di sport invernali, frutto della volontà di contemperare lo sviluppo turistico con la tutela ambientale.

Il lavoro è stato lungo e ha coinvolto le Commissioni che hanno anche costituito un gruppo di lavoro informale, composto dai Consiglieri interessati, dai rappresentanti degli Assessorati al turismo, all’urbanistica e ai parchi e dagli Uffici delle Segreterie delle Commissioni, con l’obiettivo di pervenire ad una proposta di testo unificato il più possibile condivisa, da sottoporre alla
valutazione finale delle due Commissioni in seduta plenaria.

Questa legge, dopo un’ampia discussione in Commissione, è importante non solo per gli sport invernali e il turismo ma per tutta l’economia della montagna. Sarà infatti uno strumento per la Regione con cui si darà il supporto per lo sviluppo economico e sociale della montagna, nella più ampia tutela dell’ambiente montano.

La legge regolamenta per la prima volta l’Eliski introducendo limiti e coinvolgendo a pieno i Comuni interessati.

E’ stato posto inoltre un limite all’edificazione nelle aree sciabili dove non si potranno più costruire abitazioni, nell’ottica di contenere il consumo di suolo, in modo che i gestori degli impianti possano poi recuperare spazi dalla bonifica degli edifici abbandonati.

La legge è innovativa in quanto non si limita agli sport invernali, ma riguarda tutti gli sport estivi nelle aree sciabili che saranno assimilati a quelli invernali, con vantaggi burocratici per esempio sul fronte delle servitù sui terreni.

Diventeranno più stringenti inoltre le norme in materia di sicurezza, con l’assicurazione sullo skipass che diventerà obbligatoria e una più precisa definizione delle responsabilità di gestori e sciatori.

La montagna è un patrimonio della nostra Regione che deve essere vissuto e promosso tutto l’anno, proprio da qui intendiamo ripartire per un rilancio del Piemonte che coniughi le leve di sviluppo legate al turismo e le garanzie di tutela necessarie per preservare il nostro territorio.

31 Gennaio 2017/0 Commenti/da Daniele Valle

UN SOSTEGNO ALLE INDUSTRIE DI RIVAROLO

In Regione

COMUNICATO STAMPA

04/11/2016 – Torino

C’è anche Rivarolo fra le città che la Regione Piemonte ha deciso di segnalare al Ministero per lo sviluppo economico come destinatarie di un finanziamento di 20 milioni di euro per il rilancio del tessuto industriale e occupazionale delle zone maggiormente colpite dalla crisi economica ed industriale. “Siamo molto soddisfatti di questa decisione, che testimonia interesse e consapevolezza da parte della Regione nei confronti di una zona strategica da proteggere e rilanciare quale è il canavese” commenta il Consigliere regionale Daniele Valle.

Lo stanziamento deriva da un Decreto del Ministero dello Sviluppo economico e consentirà alle aziende di finanziare progetti di ricerca, innovazione, miglioramento del ciclo produttivo, efficientamento energetico e includerà inoltre progetti per la riqualificazione di aree dismesse, incentivi all’occupazione e politiche attive del lavoro. “Questa manovra – afferma l’Onorevole Francesca Bonomo – unita al lavoro che si sta svolgendo in attuazione del decreto legislativo ‘Burocrazia Zero’ per l’attivazione di percorsi sperimentali di semplificazione amministrativa, segna un punto nodale per il rilancio e lo sviluppo del canavese. Sottolineiamo che fra gli obiettivi concreti di questo Governo e dell’amministrazione Regionale piemontese vi sono quindi la volontà di non lasciare soli i territori e di accompagnarne al meglio la crescita e lo sviluppo, mettendo in campo diverse forme di sostegno ed aiuto”.

[QUI un articolo sulle prime linee guida]

4 Novembre 2016/0 Commenti/da Daniele Valle

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