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Daniele Valle

Perché l’Italia si è spaccata e Matteo Renzi potrebbe invitare a cena Pier Luigi Bersani

Cosa Penso

Dopo il referendum non si parla più di riforme costituzionali: ha vinto il «No» ma quanto è sostenibile il No al cambiamento?

La netta vittoria del No al referendum sembra aver convinto tutti che le riforme alla Costituzione non siano più necessarie. La classe politica ha ora altri pensieri e si è doverosamente ritirata in buon ordine, perché il popolo ha parlato. E chi siamo noi per giudicare il popolo? Vince la maggioranza ed è giusto così. Ma non dovremmo confondere la maggioranza con la verità assoluta.

Il voto «contro» ha travolto tutto e le ragioni del Sì sono state un’arma debole contro la possibilità – offerta su un piatto d’argento – di cacciare il governante in carica. Non viene in mente un premier degli ultimi vent’anni che non sarebbe stato travolto in un Paese con la disoccupazione all’11,6% e dopo anni pesanti, se al popolo fosse stata data questa possibilità.

Ora che di Costituzione non si parlerà più per un po’, però, si può dire che la gran parte delle misure era una sacrosanta semplificazione, richiesta evergreen e bipartisan, a un sistema da tutti definito troppo complicato, in cui da anni ci si lamenta dei troppi decreti e di un Parlamento inadeguato. Si poteva fare meglio, si poteva scrivere meglio il testo, si poteva trovare una maggiore condivisione (la condivisione di molti in Parlamento c’era ed è stata poi ritirata) e la poca chiarezza sull’elezione dei senatori non ha aiutato. Ma non prendiamoci in giro sulla sostanza. Per colpe varie, in primis di Matteo Renzi, il voto non è stato sulla Costituzione. Parliamo del resto.

Sono giorni senza vincitori. Il No ha vinto ma i sostenitori non possono andare al voto, chi voleva la riforma si trova davanti un governo anomalo , allo stesso tempo simile e molto diverso da quelle precedente. C’è una parte del Paese profondamente delusa dall’esito del voto, che lunedì scorso pensava di vivere il remake italiano del risveglio dopo Brexit. Quello di giugno era stato uno shock. Questo è meno forte, perché riguarda più l’Italia che tutta l’Europa, perché troveremo un modo per uscirne pure questa volta, perché gli italiani sono fatti così.

La delusione ha qualcosa a che fare con l’effimera sensazione che negli ultimi tempi l’Italia si fosse mossa un po’. Non bisogna essere renziani e nemmeno del Pd per riconoscere alcuni fatti. L’amore di polemica e i tormentoni travolgono tutto e semplificano: per esempio tanti pensano davvero che Renzi sia come Berlusconi a causa dello stile personalistico della comunicazione. Ora, sarà vero che Renzi a volte esagera, ma non è Berlusconi, né nel bene né nel male. Nel male per esempio: Renzi non è Berlusconi per conflitti di interessi e inchieste giudiziarie. Eppure quel messaggio è passato.

I fatti: alcuni indicatori economici dicono che l’economia italiana è migliorata durante il governo Renzi. La crescita è debole e alcuni fondamentali potrebbero essere migliorati anche grazie al lavoro dei governi Monti e Letta. I conti pubblici non migliorano ma le famiglie italiane stanno meglio e la disoccupazione è calata, pur restando alta.

Chi non ha lavoro e ha perso le speranze ha ragioni da vendere per andare a votare «contro». Ciascuno dei No, e forse in particolare i No maturati da sofferenze economiche, meritano rispetto. Il problema è che la somma dei singoli No, e il No gridato al Sistema, non offre in risposta alcuna garanzia di uscire dal problema stesso. È come andare a un corteo la domenica mattina: è sacrosanto manifestare se si crede in qualcosa, ma poi ugualmente il pranzo non sarà gratis, offerto dai valori di un tempo.

L’Italia è in effetti spaccata. La parte di Paese che lavora e compete nel mondo, indipendentemente da aver votato Sì o No, sa benissimo che non ha alcun senso rifiutare il Sistema. Lo sa perché ne fa parte, paga fior di tasse, e lavora tanto, perdendo a volte il tempo con burocrazie ottocentesche. Questa parte sa che non c’è welfare che possa tenere se non c’è lavoro, sa che il lavoro non c’è se non ci sono gli investimenti. Questa parte di Paese, lunedì mattina, si è sentita un po’ presa in giro ma dopo tutto si è rimessa al lavoro: è abituata a fare le cose nonostante lo Stato.

Il dramma è di chi è senza lavoro e speranze: è un’altra parte di Paese, che conterebbe sull’aiuto dello Stato e ha votato No per dire che così non va. Il dramma è che la riforma, a volerci credere anche solo parzialmente, prometteva un cambiamento. Un governo più stabile è quello che qualunque investitore vorrebbe vedere. Senza governo gli investimenti possono rallentare e così il lavoro. Non è un ricatto, non è turbocapitalismo: è semplicemente capire le regole del gioco, se si vuol giocare.

È tutto parte di un problema più ampio, ovviamente, e ciò è maledettamente noioso e poco sexy e non cattura l’attenzione dell’elettorato, creando un bel problema. Proprio chi poteva tifare di più per un cambiamento ha votato No e rischia di pagarne le conseguenze.

Nel 2009 negli Stati Uniti l’amministrazione Obama ha deciso di spendere 787 miliardi di dollari per rilanciare l’economia dopo la crisi finanziaria iniziata nel 2007. I risultati si sono visti perché oggi la disoccupazione è scesa sotto al 5%. Si può dire che l’America abbia creato il lavoro. Pur essendo un sistema economico diverso e molto più competitivo, con ancora meno garanzie per i lavoratori, viene da chiedersi: perché Renzi non ha fatto altrettanto? Non aveva quei soldi, perché l’Italia presenta ogni anno il proprio bilancio alla Commissione europea, che con l’obiettivo politico di tenere insieme l’Unione economica bacchetta i Paesi che spendono troppo rispetto a quanto incassano.

La reazione immediata è «al diavolo l’Europa!», e in parte anche Renzi ha chiesto di cambiare questa visione sui conti in Europa. Ma non è affatto semplice, perché l’Italia si presenta con il suo grande debito pubblico e non riesce da sola a condizionare le decisioni. Secondo molti la linea dell’Europa non è saggia, ma anche in questo caso vince la maggioranza, è democrazia: sono i risultati delle elezioni europee, che eleggono il Parlamento, la cui maggioranza pesa poi nella nomina della Commissione europea. La reazione immediata-bis, «usciamo dall’Europa», presenta grandi rischi.

Sarebbe bello avere una risposta che stia in una sola frase, ma non l’abbiamo ancora trovata.

Come è potuto succedere, insomma, che proprio i più deboli non abbiano voluto votare per cambiare? Per fortuna a questo abbiamo una risposta: è colpa della politica. È colpa di Renzi, che non ha mantenuto la promessa fatta per venire incontro alle partite Iva e ai lavoratori giovani, liberalizzando alcuni settori, temendo di essere impopolare per esempio con i tassisti. Era una scommessa a metà. Un calcolo politico comprensibile, frutto di un compromesso perché la coperta è corta, che puntava a premiare alcune fasce del Paese, dai redditi bassi con gli 80 euro ai proprietari di casa con la cancellazione dell’Imu.

Perché gli italiani che detestano la politica non hanno voluto diminuire il numero dei senatori e tagliare alcuni costi? È colpa di Renzi, che ha messo al centro se stesso e non la riforma, anche se forse non aveva grandi alternative.

Ma che facciamo ora? La sensazione di avere un premier tutto sommato normale è stata rimpiazzata dal timore di non avere più alternative. La frase «Renzi era l’ultima occasione» viene pronunciata spesso ed è probabilmente sbagliata. Ma è vero che Renzi ha fatto cose inedite in Italia, dalla riforma del lavoro, criticata ma considerata essenziale, alla legge sulle unioni civili.

La questione dell’«ultima occasione» chiama in causa le alternative a Renzi, che fino a oggi sono state in grado di divenire molto popolari ma allo stesso tempo poco chiare. Dalla confusione personalistica del centrodestra ancora dipendente da Silvio Berlusconi e scosso dalla rincorsa della Lega, al Movimento 5 Stelle che a volte sembra impreparato, a volte ripete logiche poco trasparenti nelle sue decisioni politiche più importanti.

Forse Renzi, considerato da molti un abile politico, ha sottovalutato proprio la strategia politica. Forse è così che funziona quando una proposta nuova, come quella di Renzi nel Pd, deve confrontarsi con la fatica del governo. Ora molti guardano ancora a Renzi, convinti che saprà trovare una nuova via. Senza il peso del governo potrà occuparsi del partito e in primis ricomporre le fratture, anche se è faticoso ammettere di aver sbagliato.

 

Dopo il voto Pierluigi Bersani commentava in televisione il risultato del referendum e spiegava con la metafora della mucca nel corridoio l’esigenza di ascoltare il Paese che sta male, soprattutto perché non ha lavoro. È il Bersani delle liberalizzazioni ma anche quello della militanza orgogliosa. Pochi minuti prima di lui in tv c’era Graziano Delrio, che sembrava voler offrire una sintesi tra due mondi che non si parlano: difendeva Renzi per lo sguardo ottimista sul Paese così criticato dalla minoranza, senza però rinnegare la capacità di capire chi soffre.

Ora, se in gioco c’è il Paese sarebbe davvero incomprensibile che un leader che si è proposto come il nuovo e ha fatto già un pezzo importante di strada come Renzi non trovi il modo di chiudere questo solco, invitare a cena Bersani, parlare chiaro, mettere da parte le incomprensioni e i personalismi, i ricorsi storici della sinistra. Se così farà, che vinca o no il probabile congresso, Bersani o chi per lui non potrà tirarsi indietro. Soprattutto, se il Pd trovasse la forza di uscire da questa crisi obbligherebbe anche gli altri partiti a un cambio di passo: il centrodestra farebbe le primarie, il M5S presenterebbe un programma di governo. Così, infine, potremmo scegliere.

beniamino.pagliaro@lastampa.it

@bpagliaro

(Clicca qui per l’articolo integrale su La Stampa)

12 Dicembre 2016
Tags: #bersani, #partitodemocratico, renzi
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