Daniele Valle
  • Home
  • Chi Sono
  • Bandi
  • Rimani Aggiornato
  • Contatti
  • Menu Menu
  • Facebook
  • Twitter
  • Instagram
  • Telegram
  • LinkedIn
  • Youtube

Tag Archivio per: #partitodemocratico

METTIAMOCI IN CAMMINO

Cosa Penso

Uno dei pilastri che da sempre sostengono il mio impegno politico, è senza dubbio la volontà di fare qualcosa  di concreto per cambiare in meglio la vita delle persone. La politica è infatti, secondo me, servizio verso la comunità, portando avanti iniziative e progetti che a nostro avviso abbiano un impatto positivo sulla vita dei cittadini.
Il primo motivo per cui sostengo e voterò Matteo Renzi alle primarie di domani è proprio l’impegno concreto e determinato che ha dimostrato durante i suoi mille giorni di governo, nel portare avanti una serie di importanti riforme che potessero finalmente dare un po’ di respiro a questo paese. Mi riferisco a misure come il Dopo di noi, la legge di lotta al Caporalato, le Unioni Civili, gli 80 euro, gli investimenti sull’istruzione della Buona scuola, l’Art Bonus e lo School Bonus. Molte sono le cose ancora da fare o da migliorare, ma l’Italia aveva davvero bisogno di una prima scossa, e il Governo Renzi ha lavorato tenacemente per provarci.
Il secondo motivo per cui sostengo Matteo Renzi è che dopo essere stato criticato da chi lo vedeva come un “uomo solo al comando”, ha deciso, per migliorare e migliorarsi, ha deciso di proporre in questo congresso una candidatura “a quattro mani”, affiancadosi in tutto e per tutto al Maurizio Martina, Ministro dell’agricoltura e uomo dalla grande cultura di partito. Il loro programma politico, che potete leggere qui, tocca tutti i temi che io ritengo essere fondamentali: il sociale, l’innovazione, un’Europa diversa, il lavoro e i giovani.

Il centrosinistra oggi più che mai ha bisogno, soprattutto di fronte all’emergere dei populismi e delle destre che agitano l’odio sociale, della determinazione e della forza propositiva di un leader come Matteo Renzi, che sappia portare avanti con coraggio e con una squadra rinnovata, i cambiamenti di cui questo paese ha un disperato bisogno.

29 Aprile 2017

PRIMARIE PD 2017 – istruzioni per l’uso

Appuntamenti

Come si vota domenica 30 aprile?

 

DOMENICA 30 APRILE si svolgerà il più grande appuntamento dedicato alle primarie nel nostro paese, in cui si sceglierà il Segretario del Partito Democratico nonchè prossimo candidato Premier alle elezioni politiche. Si possono muovere molte critiche al PD, alcune volte anche a ragione, ma alla fine il dato oggettivo è che è l’unico partito che si conferma realmente democratico al suo interno.
Quindi, la cosa bella è che potranno votare TUTTI i cittadini (dai 16 anni in su), anche i non iscritti al partito ovviamente, basta che in possesso della tessera elettorale o pre-registrati sul sito delle primarie (se minori, stranieri o fuori sede).
I seggi creati ad hoc saranno aperti dalle 8.00 alle 20.00, ma bisognerà presentarsi con TESSERA ELETTORALE e DOCUMENTO D’IDENTITA’.
Visto che questo esercizio di democrazia costa (e parecchio) nonostante sia completamente gestito da volontari, vi sarà richiesto di versare 2 euro che rimarranno alla sede territoriale (Circolo) che ha organizzato il seggio.
Se volete curiosare c’è un sito apposta con tutte le domande e risposte: www.primariepd2017.it

Dove si vota?

Non si può votare in qualunque seggio, ma solamente in quello della propria zona, così come avviene nelle normali elezioni amministrative.
QUI potete scaricare l’elenco di tutti i seggi di Torino. Di fianco ad ogni seggio sono elencate le sezioni elettorali che votano proprio in quel seggio. La sezione elettorale di appartenenza la trovate sulla tessera elettorale.

 

Chi si vota?

Come sicuramente saprete i 3 candidati alla Segreteria del Pd sono Matteo Renzi, Andrea Orlando e Michele Emiliano.Se avete tempo e volete leggere i loro programmi, cliccando sui nomi è possibile scaricare i testi delle mozioni congressuali.

RENZI   –  ORLANDO   –   EMILIANO

 

 

28 Aprile 2017

La rabbia e l’algoritmo

Cosa Penso

È arrivato il momento di prendere il Movimento 5 Stelle (e i suoi alleati globali) sul serio: i due volti del populismo e cosa fare da qui in poi.

di Giuliano da Empoli (articolo originale qui su VoltaItalia)

 

Livorno è una città importante, nella storia della sinistra italiana. Qui si è prodotta, nel 1921, la scissione che ha dato vita al Partito Comunista Italiano. E qui, ottant’anni dopo, si sono incontrati per la prima volta Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, in una scena inaugurale – l’incontro tra l’animale da palcoscenico, poderoso ma incerto sulla direzione da dare alla sua rabbia primordiale e l’algido nerd digitale, visionario ma un po’ sperduto nel mondo reale – che è entrata a far parte della mitologia del “movimento”.

Mi direte che ho perso il senso delle proporzioni, se metto a confronto un evento capitale come la nascita del partito fondato da Gramsci con i primi vagiti di un movimento la cui massima espressione culturale è stata finora l’autobiografia di Di Battista.

Può darsi. Ma il punto è che è arrivato il momento di prendere sul serio il Movimento 5 Stelle. Ci siamo illusi per troppo tempo che si trattasse di un fenomeno residuale, destinato prima o poi ad essere riassorbito, magari anche grazie all’avvento di una nuova generazione capace di spezzare l’incantesimo paralizzante del ventennio berlusconiano.

Abbiamo anche pensato che esistesse un soffitto di cristallo, oltre il quale il partito del vaffa non potesse andare. Ma ciò che sta avvenendo negli Stati Uniti e in giro per l’Europa dimostra che i soffitti di cristallo che impedivano ai demagoghi più sfacciati di arrivare al potere sono stati infranti dappertutto. E l’ipotesi che i 5 stelle possano un giorno, davvero, assumere la guida del governo dell’Italia non appartiene più al regno della fantascienza.

La verità è che, proprio come il PCI del secolo scorso, il M5S è parte di un movimento globale, che sta cambiando il volto delle democrazie liberali dell’occidente.

In un libro di alcuni anni fa, Peter Sloterdijk ha ricostruito la storia politica della rabbia. La tesi è che si tratti di un sentimento insopprimibile, che attraversa tutte le società, alimentato da coloro i quali, a torto o a ragione, ritengono di non avere abbastanza, di essere esclusi, discriminati o poco ascoltati.

Storicamente in occidente è stata la Chiesa a dare uno sbocco a questa enorme accumulazione di rabbia e poi, a partire dalla fine dell’ottocento, i partiti della sinistra. Che hanno svolto, secondo Sloterdijk, la funzione di “banche della collera”, accumulando energie che, anziché essere spese nel momento, potevano essere investite per costruire un progetto più grande. Esercizio non facile, in quanto si trattava da una parte di attizzare costantemente l’odio e il risentimento e dall’altra di controllarli, in modo che non venissero sprecati in episodi individuali, bensì servissero alla realizzazione del piano generale. In base a questo schema, il perdente si trasformava in militante e la sua rabbia trovava uno sbocco politico.

Oggi, dice Sloterdijk, nessuno gestisce più la collera accumulata negli uomini. Né la religione cattolica – che ha dovuto abbandonare i toni apocalittici, il giudizio universale e la rivincita dei perdenti nell’aldilà per andare d’accordo con la modernità – né la sinistra – che, in misura prevalente, si è riconciliata con i principi della democrazia liberale e le regole del mercato. Il risultato è che la collera ha assunto, all’inizio del XXI secolo, forme sempre più disorganizzate, dai movimenti no global alla rivolta delle banlieues.

A dieci anni dalla pubblicazione del saggio di Sloterdijk è ormai chiaro che le forze della rabbia si sono riorganizzate, trovando espressione nella galassia dei nuovi nazionalismi che, dall’Europa dell’Est agli Stati Uniti, passando per la Francia di Marine Le Pen e l’Olanda di Geert Wilders, hanno assunto un ruolo sempre più dominante sulla scena politica dei loro rispettivi paesi.

 

Google applicato alla politica

In Italia è un tema che conosciamo bene. La rabbia anti-establishment che altri stanno scoprendo solo adesso, è da noi la principale motivazione del voto da oltre un quarto di secolo. Ed è per questa ragione che ci siamo trasformati, dal 1992, in un eccezionale laboratorio politico che ha sperimentato più o meno tutte le forme di populismo concepibili dalla mente umana. Dal populismo regionalista della Lega a quello giudiziario di Di Pietro, fino all’apoteosi catodica del populismo plutocratico del Cavaliere.

Molti di questi esperimenti li abbiamo poi esportati con successo (come dimostra l’elezione del 45° Presidente degli Stati Uniti d’America). Da alcuni anni, però, la rabbia ha assunto da noi una forma politica che gli altri paesi dell’occidente ancora non conoscono.

La forza del Movimento 5 Stelle si basa sull’unione paritaria di due componenti, quella analogica e quella digitale, che non avevano mai trovato prima d’ora una sintesi politica così micidiale (ben descritta dal collettivo Obsolete Capitalism nei loro pamphlet sulla nascita del populismo digitale).

Da una parte, la componente analogica, incarnata dalla fisicità prorompente di Beppe Grillo, dà al movimento il suo calore e la sua passione. E’ una proposta politica formattata per l’era dei reality show, la stessa che ha portato Trump al potere negli Usa. Il trionfo dell’uomo comune messo al centro della scena, la presa del potere da parte dello spettatore sovrano che partecipa, decide e sanziona, il rigetto delle élites e la dittatura dello streaming: come ha visto Andrea Minuz, è nel pantheon dei reality che vanno cercati i miti fondatori dei grillini. E non è certo un caso che dietro le quinte ci sia Rocco Casalino, tra i protagonisti della prima edizione del Grande Fratello, oggi portavoce e responsabile della comunicazione del M5S.

Tendendo l’orecchio, però, dietro questa facciata spettacolare si avverte il mormorio dei server della Casaleggio & Associati: una macchina discreta e sofisticata, della quale solo ora stiamo cominciando a scoprire la vera potenza. Al contrario di quanto avvenga altrove, non si tratta di una semplice sovrastruttura, appiccicata alla meno peggio su un apparato organizzativo e comunicativo preesistente, ma di uno scheletro interamente nuovo: la piattaforma digitale non è solo un luogo di comunicazione, ma la fonte primaria dell’identità e dell’appartenenza al Movimento.

Da genio del marketing qual era, Gianroberto Casaleggio ha capito molti anni fa che internet avrebbe rivoluzionato la politica, rendendo possibile un movimento di tipo nuovo, guidato dalle preferenze degli elettori-consumatori come non era mai stato possibile prima di allora.  Ma si è anche reso conto del fatto che, da sola, la dimensione digitale era ancora troppo fredda e distante per dare vita ad un vero movimento di massa nel nostro Paese. Per questo ha cercato – e massicciamente investito sulla componente analogica che ha il volto di Beppe Grillo.

La forza e la resilienza del M5S, provengono dunque da questa combinazione: il populismo tradizionale che si sposa con l’algoritmo e partorisce una vera e propria macchina da guerra, per nulla gioiosa, ma tremendamente efficace.

In particolare, questo dispositivo possiede due caratteristiche dirompenti rispetto al sistema politico esistente.

Primo: il M5S ha una vocazione esplicitamente totalitaria. Nel senso che ambisce a rappresentare non una parte, ma la totalità del “popolo”. Casaleggio Senior non ha concepito il suo movimento come un partito destinato a inserirsi nel gioco – a suo avviso superato – della democrazia rappresentativa, bensì come un veicolo destinato a traghettarci verso un nuovo regime politico: la democrazia diretta dove i rappresentanti dei cittadini spariscono perché sono i cittadini stessi a prendere tutte le decisioni attraverso un processo di consultazione online permanente esteso a tutti gli ambiti della vita sociale.

Secondo: proprio in virtù della sua ambizione totalitaria, il M5S non funziona come un movimento tradizionale, ma come il Page Rank di Google. Non ha cioè una visione, un programma, un qualsiasi contenuto positivo. E’ un semplice algoritmo costruito per intercettare il consenso sulla base dei temi che tirano. Per questo, se l’immigrazione è un tema forte, Grillo lo cavalca e adotta la posizione più popolare, cioè una postura proto-leghista. Lo stesso vale per l’euro, le banche e qualsiasi altro tema di attualità. Se su uno qualunque di questi temi l’opinione pubblica dovesse evolvere in senso contrario, il M5S cambierebbe posizione (come è già accaduto più volte) senza il minimo imbarazzo.

La macchina del Movimento è la traduzione politica di Google. Intercetta le preferenze degli utenti e dà loro esattamente quello che vogliono. Per questo le polemiche su Grillo e Casaleggio che alla fine decidono tutto, in contrasto con la natura teoricamente democratica del movimento, lasciano il tempo che trovano. Perché Grillo e Casaleggio in realtà decidono sulla base dei big data, e si limitano a dare una raddrizzata quando quegli sciamannati dei loro dirigenti/aderenti rischiano di farli finire fuori strada.

 

Tre tentazioni a cui resistere

Se si analizzano questi elementi, anziché fermarsi alla cortina fumogena dei vaffanculo e delle scie chimiche, si vede che il M5S rappresenta una sfida radicale non solo per il PD e per la sinistra, ma per la democrazia parlamentare quale la conosciamo e la pratichiamo da settant’anni (altro che referendum del 4 dicembre…).

Una sfida ancor più impegnativa di Trump o del lepenismo perché, pur basandosi su umori molto simili, il M5S ha dato loro una forma politica più contemporanea. Tant’è vero che, al contrario di Trump e del Front National, il Movimento è riuscito a conquistare una larghissima quota di giovani.

Rispetto a questa sfida, il Partito Democratico ha oscillato finora tra tre tipi di risposta:

– la tentazione giacobina consiste nell’inseguire i grillini sul loro terreno, diventando più populisti, più antipolitici e più giacobini di loro, denunciando una per una le frequenti cadute degli amministratori pentastellati, celebrando gli avvisi di garanzia come altrettanti goal inflitti alla squadra avversaria;

– la tentazione élitaria consiste nell’attribuire il successo del M5S all’ignoranza e alla manipolazione, facendo leva sull’opacità della macchina comunicativa di Casaleggio, sui legami con la Russia, sui bot, sui troll, sulle operazioni di disinformazione e sulle fake news per dimostrare che è tutta una grande truffa, che va smontata con il faro accecante della Ragione, incarnato dal ditino alzato del fact checker;

– la tentazione dorotea consiste nell’asserragliarsi nel bunker del sistema, in un grande revival nostalgico della prima repubblica, scommettendo sulla tenuta di un argine contro la barbarie che metta insieme tutto e il contrario di tutto in una santa alleanza rispetto alla quale il governo Forlani del 1981 apparirebbe come un esempio di fantasia al potere.

Portata alle sue estreme conclusioni, ognuna di queste strategie è destinata al fallimento.

La tentazione giacobina ha certo il merito di inchiodare i grillini alle loro responsabilità e di accendere un riflettore sulle contraddizioni tra le loro parole e i loro fatti (e su questo versante, il caso Raggi è una fonte inesauribile di spunti, alla quale è difficilissimo resistere…). Il problema è che in politica chi adotta la cornice di riferimento degli avversari è già sconfitto in partenza. Il frame giacobino è fatto su misura per un movimento di opposizione, formato di dilettanti allo sbaraglio, con pochissima esperienza del potere e nessuna cultura giuridica. Un po’ meno per il principale partito di governo del Paese, con decine di migliaia di iscritti impegnati ogni giorno in prima linea nell’amministrazione della cosa pubblica.

Paradossalmente, sul caso Raggi, hanno più cultura istituzionale i tassisti romani che dicono “lasciatela lavorare”, piuttosto che gli implacabili re-censori delle chat comunali che gridano ogni giorno allo scandalo. Chiunque si illuda che il grillismo possa essere sconfitto per via giudiziaria persevera in un errore diabolico, che la sinistra ha già compiuto altre volte in passato e che si è sempre ritorto contro di lei.

La tentazione elitaria ha il pregio di accendere i riflettori su una dimensione finora poco indagata. Se è vero che dicerie e calunnie sono sempre esistite – Mark Twain diceva “una bugia può viaggiare per mezzo mondo mentre la verità si sta ancora mettendo le scarpe” –  è altrettanto vero che la nuova ecologia dei media sembra fatta apposta per moltiplicare il loro impatto. Walter Quattrociocchi ha avuto il merito di dimostrare empiricamente il funzionamento delle echo chambers, i gruppi chiusi impermeabili a qualsiasi contraddizione. E sul piano giornalistico, Alberto Nardelli di Buzzfeed, Jacopo Iacoboni de La Stampa e altri cronisti hanno messo in luce le pratiche opache della disinformazione made in Casaleggio.

Approfondire la conoscenza di questi meccanismi è essenziale per poter attivare le giuste contromisure. Ma da un punto di vista politico bisogna riconoscere che le palle funzionano perché sono inserite in una narrazione che intercetta le paure e le aspirazioni di una quota crescente dell’elettorato. Mentre i fatti di chi prova a contrastarle sono inseriti in un racconto che non viene più giudicato credibile. In pratica, per i seguaci dei populisti non conta la veridicità dei singoli fatti, perché ad essere vero è il messaggio d’insieme, che corrisponde alla loro esperienza e alle loro sensazioni. E di fronte a questo, servirà a poco accumulare i dati e le correzioni, se la visione complessiva dei governanti e dei partiti tradizionali continuerà ad essere percepita come poco pertinente rispetto alla realtà.

La tentazione dorotea, infine, ha il merito di rimettere al centro i fondamentali. Di fronte all’avventurismo dei trumpisti d’Italia, è chiaro che il PD dev’essere il partito della responsabilità e del governo, quello che punta a indicare con convinzione una prospettiva europea per l’Italia.

Ma la suggestione di una nuova DC, dopata dal ritorno della proporzionale, che tenga insieme un nugolo di satelliti e faccia da argine nei confronti di un nuovo PCI impersonato dal M5S non regge. Perché il fattore K che impediva al PCI di accedere al governo non esiste più. E, alla lunga, la diga dei dorotei verrebbe spazzata via dalla rabbia dei nuovi barbari.

 

La sfida che abbiamo davanti

Già, la rabbia, si torna sempre lì. Il punto è capire se vogliamo prenderla di petto o se ci accontentiamo di provare ad arginarla.

Nei suoi momenti migliori – le primarie del 2012 e poi soprattutto i primi mesi del governo Renzi e le elezioni europee del 2014 – il PD ha saputo intercettare la rabbia degli scontenti, quella che è all’origine del successo di Grillo e degli altri trumpisti. Non è un caso se il M5S ha subito, in quella fase, un netto arretramento, passando dal 25,5% delle politiche del 2013 al 21,1% dell’anno successivo.

Per la prima volta, anziché imboccare la strada delle forze anti-sistema, la rabbia ha trovato uno sbocco di governo, ispirando misure di sostegno ai redditi più bassi (gli 80 euro), di apertura del mercato del lavoro agli outsider (il Jobs Act), di limitazione dei privilegi della “casta” (il tetto agli stipendi pubblici). In seguito, la capacità del governo Renzi di dare uno sbocco politico alla rabbia è andata riducendosi, fino alla sconfitta del referendum. Ma la natura del problema non è cambiata.

Il PD ha ancora voglia di andare là fuori, a ristrappare uno per uno i voti ai grillini e ai trumpisti, provando a dare una risposta politica e di governo alla loro rabbia? Oppure si dichiara sconfitto in partenza e si asserraglia nel fortino del sistema sperando che Dio gliela mandi buona?

Nel secondo caso, non c’è un granché da fare. La vittoria del NO al referendum ha messo il paese sulla china di un dolce ritorno al passato, addirittura al passato remoto della Prima Repubblica, con i suoi eleganti arabeschi di caute sperimentazioni e di convergenze parallele. Basta accompagnare la tendenza con qualche mossa accorta e il gioco è fatto.

Nel primo caso, al contrario, si apre un cantiere enorme, dall’esito incerto. Il cui punto di partenza è un interrogativo molto semplice: come fa un vecchio arnese come l’unico partito sopravvissuto alla fine dei partiti, una specie di tartaruga preistorica della politica, a confrontarsi con un ectoplasma mutante perfettamente contemporaneo come il M5S?

Che al posto di un programma ha un algoritmo che rielabora continuamente le preferenze dei cittadini-consumatori e partorisce la risposta che vogliono sentirsi dare? Senza il noioso ingombro della storia, dei principi o perfino della più elementare coerenza?

Chiaramente non esiste una soluzione in due parole che si possa applicare a tavolino. In termini generali, però, a me sembra che il punto sia abbastanza basico. Il M5S è pura quantità. Quando dicono Uno vale Uno è vero. Per loro le persone, inclusi gli aderenti e gli stessi dirigenti, sono numeri. Uno vale l’altro. I grillini sono monadi intercambiabili. Non ce n’è uno più bravo e uno meno. Chi sgarra viene fatto fuori e basta.

Il mondo dei grillini è il futuro orwelliano delle cellule di Matrix. La loro classe dirigente è mediocre perché non è selezionata sulla base del merito, ma a caso. I loro contenuti e le loro politiche sono erratici perché non sono il frutto di un ragionamento, ma di un algoritmo. I loro principi sono vuoti – e le relazioni umane che intrattengono tra loro, come si è visto nel caso di Roma, feroci – perché non sono basati su affinità e su valori, ma su dati (per quanto big…).

Di fronte alla sfida della quantità, il PD dovrebbe diventare il partito della Qualità.

Non solo la Qualità di una classe dirigente che va selezionata sul serio, a partire dai territori e fino al vertice. Ma soprattutto il partito della Qualità nelle politiche e negli obiettivi delle politiche. Facile a dirsi, certo, si tratta di un lavoro immane: per chi pensava di essere arrivato alla fine della storia si può dire che siamo passati da Fukuyama a Sisifo.

Alternative però non ce ne sono. E la posta in gioco va ben al di là delle sorti del Partito Democratico. O la classe dirigente, in Italia come all’estero, a sinistra come a destra, dimostra di essere in grado di produrre qualità, non solo per se stessa ma per la società nel suo insieme, oppure sarà spazzata via dalla rivoluzione degli uomini qualunque.

Quando l’ideologo di Trump, Steve Bannon, dice che i democratici avevano perso il senso della realtà perché parlavano con i fondatori di startup che capitalizzano nove miliardi di dollari l’una e danno lavoro a nove persone ciascuna pensando che quello fosse il futuro, esagera ma pone un problema vero, al quale la campagna di Hillary non ha dato alcuna risposta.

Tra l’innovazione e il progresso esiste una differenza fondamentale che abbiamo perso di vista un po’ troppo spesso, presi com’eravamo dall’ossessione di rimanere indietro, dalla paura di essere tagliati fuori. E’ la qualità, la differenza tra l’innovazione e il progresso. La qualità della vita, la qualità delle relazioni umane, la qualità del futuro che stiamo costruendo per i nostri figli.

E’ per aver perso di vista questa differenza cruciale che ci ritroviamo oggi nella condizione di Sisifo, condannati a ricominciare da capo le opere che pensavamo di aver completato: l’integrazione europea, l’apertura delle frontiere, la fine del protezionismo e del nazionalismo. Credevamo che fossero processi irreversibili, ma Trump, Farage, Le Pen e Grillo stanno dimostrando che non è così.

Dietro la loro ascesa c’è una verità fondamentale: negli ultimi anni le nostre società sono cambiate in modo strutturale, senza che nessuno abbia davvero chiesto alla gente cosa ne pensasse. Buona parte della rabbia nasce da qui.

La globalizzazione dell’economia, l’integrazione europea, l’immigrazione di massa: ciascuno di questi processi ha profondamente modificato la nostra vite. Non in modo astratto, ma concretamente: il lavoro che facciamo (o non facciamo), le cose che mangiamo, la gente che incontriamo per strada, i compagni di scuola dei nostri figli.

Ciascuno di questi processi è stato presentato come ineluttabile. Perfino nei paesi, come la Gran Bretagna, la Germania e la Francia che, per la loro storia e le loro dimensioni erano abituati a determinare il corso della storia, anziché semplicemente adattarvisi.

Ora i nuovi nazionalisti dimostrano il contrario.

No, la globalizzazione, l’apertura delle frontiere, la costruzione europea e la società della tolleranza non sono dati di fatto. Sono scelte. Scelte che abbiamo compiuto implicitamente, nella migliore delle ipotesi con il silenzio-assenso dei popoli, e che loro hanno intenzione di revocare, come i doppi passaporti che Marine ha già annunciato di voler cancellare.

Di fronte a questo, non basta più fare finta di nulla. Scuotere la testa con condiscendenza spiegando che “non è possibile”. Non è possibile uscire dall’euro, non è possibile chiudere le frontiere, non è possibile tornare indietro sui diritti civili. Ci piacerebbe, forse, che fosse così, ma non è vero. La verità è che si può uscire dall’euro e perfino dall’Unione Europea (Brexit docet), che si possono chiudere le frontiere e reintrodurre il protezionismo (Trump docet), che si possono rimettere in discussione i diritti delle minoranze, dei gay, delle donne (Putin docet).

Smettiamo di dire che non si può fare e cerchiamo di dimostrare che non è una buona idea farlo. Meglio ancora, spieghiamo qual è la nostra alternativa. Che non rappresenta più un destino ineluttabile, bensì il frutto di una scelta che dev’essere argomentata e motivata in ogni momento, nei termini del progresso collettivo e non solo della pura e semplice “innovazione”.

A questo giro, l’onere della prova spetta a noi, perché l’opzione di default non è più l’apertura, ma la chiusura. Lepenisti, trumpisti e grillini hanno reso esplicite delle domande (vogliamo la società aperta? la libera circolazione? la globalizzazione? l’Europa unita?) che finora erano sempre rimaste implicite, perché tutti, a destra come a sinistra, davano più o meno per scontata una risposta affermativa. D’ora in poi non possiamo più dare per scontate le risposte: se vogliamo andare avanti e non tornare indietro dovremo essere in grado di convincere la gente che ne vale davvero la pena – e non sarà facile, perché molti, di noi non si fidano più. Un lavoraccio, certo. Ma un’altra via non c’è se vogliamo sperare che, la prossima volta, quei massi restino in cima alla collina, anziché sfuggirci di mano per rotolare di nuovo a valle.

 

17 Febbraio 2017

Perché l’Italia si è spaccata e Matteo Renzi potrebbe invitare a cena Pier Luigi Bersani

Cosa Penso

Dopo il referendum non si parla più di riforme costituzionali: ha vinto il «No» ma quanto è sostenibile il No al cambiamento?

La netta vittoria del No al referendum sembra aver convinto tutti che le riforme alla Costituzione non siano più necessarie. La classe politica ha ora altri pensieri e si è doverosamente ritirata in buon ordine, perché il popolo ha parlato. E chi siamo noi per giudicare il popolo? Vince la maggioranza ed è giusto così. Ma non dovremmo confondere la maggioranza con la verità assoluta.

Il voto «contro» ha travolto tutto e le ragioni del Sì sono state un’arma debole contro la possibilità – offerta su un piatto d’argento – di cacciare il governante in carica. Non viene in mente un premier degli ultimi vent’anni che non sarebbe stato travolto in un Paese con la disoccupazione all’11,6% e dopo anni pesanti, se al popolo fosse stata data questa possibilità.

Ora che di Costituzione non si parlerà più per un po’, però, si può dire che la gran parte delle misure era una sacrosanta semplificazione, richiesta evergreen e bipartisan, a un sistema da tutti definito troppo complicato, in cui da anni ci si lamenta dei troppi decreti e di un Parlamento inadeguato. Si poteva fare meglio, si poteva scrivere meglio il testo, si poteva trovare una maggiore condivisione (la condivisione di molti in Parlamento c’era ed è stata poi ritirata) e la poca chiarezza sull’elezione dei senatori non ha aiutato. Ma non prendiamoci in giro sulla sostanza. Per colpe varie, in primis di Matteo Renzi, il voto non è stato sulla Costituzione. Parliamo del resto.

Sono giorni senza vincitori. Il No ha vinto ma i sostenitori non possono andare al voto, chi voleva la riforma si trova davanti un governo anomalo , allo stesso tempo simile e molto diverso da quelle precedente. C’è una parte del Paese profondamente delusa dall’esito del voto, che lunedì scorso pensava di vivere il remake italiano del risveglio dopo Brexit. Quello di giugno era stato uno shock. Questo è meno forte, perché riguarda più l’Italia che tutta l’Europa, perché troveremo un modo per uscirne pure questa volta, perché gli italiani sono fatti così.

La delusione ha qualcosa a che fare con l’effimera sensazione che negli ultimi tempi l’Italia si fosse mossa un po’. Non bisogna essere renziani e nemmeno del Pd per riconoscere alcuni fatti. L’amore di polemica e i tormentoni travolgono tutto e semplificano: per esempio tanti pensano davvero che Renzi sia come Berlusconi a causa dello stile personalistico della comunicazione. Ora, sarà vero che Renzi a volte esagera, ma non è Berlusconi, né nel bene né nel male. Nel male per esempio: Renzi non è Berlusconi per conflitti di interessi e inchieste giudiziarie. Eppure quel messaggio è passato.

I fatti: alcuni indicatori economici dicono che l’economia italiana è migliorata durante il governo Renzi. La crescita è debole e alcuni fondamentali potrebbero essere migliorati anche grazie al lavoro dei governi Monti e Letta. I conti pubblici non migliorano ma le famiglie italiane stanno meglio e la disoccupazione è calata, pur restando alta.

Chi non ha lavoro e ha perso le speranze ha ragioni da vendere per andare a votare «contro». Ciascuno dei No, e forse in particolare i No maturati da sofferenze economiche, meritano rispetto. Il problema è che la somma dei singoli No, e il No gridato al Sistema, non offre in risposta alcuna garanzia di uscire dal problema stesso. È come andare a un corteo la domenica mattina: è sacrosanto manifestare se si crede in qualcosa, ma poi ugualmente il pranzo non sarà gratis, offerto dai valori di un tempo.

L’Italia è in effetti spaccata. La parte di Paese che lavora e compete nel mondo, indipendentemente da aver votato Sì o No, sa benissimo che non ha alcun senso rifiutare il Sistema. Lo sa perché ne fa parte, paga fior di tasse, e lavora tanto, perdendo a volte il tempo con burocrazie ottocentesche. Questa parte sa che non c’è welfare che possa tenere se non c’è lavoro, sa che il lavoro non c’è se non ci sono gli investimenti. Questa parte di Paese, lunedì mattina, si è sentita un po’ presa in giro ma dopo tutto si è rimessa al lavoro: è abituata a fare le cose nonostante lo Stato.

Il dramma è di chi è senza lavoro e speranze: è un’altra parte di Paese, che conterebbe sull’aiuto dello Stato e ha votato No per dire che così non va. Il dramma è che la riforma, a volerci credere anche solo parzialmente, prometteva un cambiamento. Un governo più stabile è quello che qualunque investitore vorrebbe vedere. Senza governo gli investimenti possono rallentare e così il lavoro. Non è un ricatto, non è turbocapitalismo: è semplicemente capire le regole del gioco, se si vuol giocare.

È tutto parte di un problema più ampio, ovviamente, e ciò è maledettamente noioso e poco sexy e non cattura l’attenzione dell’elettorato, creando un bel problema. Proprio chi poteva tifare di più per un cambiamento ha votato No e rischia di pagarne le conseguenze.

Nel 2009 negli Stati Uniti l’amministrazione Obama ha deciso di spendere 787 miliardi di dollari per rilanciare l’economia dopo la crisi finanziaria iniziata nel 2007. I risultati si sono visti perché oggi la disoccupazione è scesa sotto al 5%. Si può dire che l’America abbia creato il lavoro. Pur essendo un sistema economico diverso e molto più competitivo, con ancora meno garanzie per i lavoratori, viene da chiedersi: perché Renzi non ha fatto altrettanto? Non aveva quei soldi, perché l’Italia presenta ogni anno il proprio bilancio alla Commissione europea, che con l’obiettivo politico di tenere insieme l’Unione economica bacchetta i Paesi che spendono troppo rispetto a quanto incassano.

La reazione immediata è «al diavolo l’Europa!», e in parte anche Renzi ha chiesto di cambiare questa visione sui conti in Europa. Ma non è affatto semplice, perché l’Italia si presenta con il suo grande debito pubblico e non riesce da sola a condizionare le decisioni. Secondo molti la linea dell’Europa non è saggia, ma anche in questo caso vince la maggioranza, è democrazia: sono i risultati delle elezioni europee, che eleggono il Parlamento, la cui maggioranza pesa poi nella nomina della Commissione europea. La reazione immediata-bis, «usciamo dall’Europa», presenta grandi rischi.

Sarebbe bello avere una risposta che stia in una sola frase, ma non l’abbiamo ancora trovata.

Come è potuto succedere, insomma, che proprio i più deboli non abbiano voluto votare per cambiare? Per fortuna a questo abbiamo una risposta: è colpa della politica. È colpa di Renzi, che non ha mantenuto la promessa fatta per venire incontro alle partite Iva e ai lavoratori giovani, liberalizzando alcuni settori, temendo di essere impopolare per esempio con i tassisti. Era una scommessa a metà. Un calcolo politico comprensibile, frutto di un compromesso perché la coperta è corta, che puntava a premiare alcune fasce del Paese, dai redditi bassi con gli 80 euro ai proprietari di casa con la cancellazione dell’Imu.

Perché gli italiani che detestano la politica non hanno voluto diminuire il numero dei senatori e tagliare alcuni costi? È colpa di Renzi, che ha messo al centro se stesso e non la riforma, anche se forse non aveva grandi alternative.

Ma che facciamo ora? La sensazione di avere un premier tutto sommato normale è stata rimpiazzata dal timore di non avere più alternative. La frase «Renzi era l’ultima occasione» viene pronunciata spesso ed è probabilmente sbagliata. Ma è vero che Renzi ha fatto cose inedite in Italia, dalla riforma del lavoro, criticata ma considerata essenziale, alla legge sulle unioni civili.

La questione dell’«ultima occasione» chiama in causa le alternative a Renzi, che fino a oggi sono state in grado di divenire molto popolari ma allo stesso tempo poco chiare. Dalla confusione personalistica del centrodestra ancora dipendente da Silvio Berlusconi e scosso dalla rincorsa della Lega, al Movimento 5 Stelle che a volte sembra impreparato, a volte ripete logiche poco trasparenti nelle sue decisioni politiche più importanti.

Forse Renzi, considerato da molti un abile politico, ha sottovalutato proprio la strategia politica. Forse è così che funziona quando una proposta nuova, come quella di Renzi nel Pd, deve confrontarsi con la fatica del governo. Ora molti guardano ancora a Renzi, convinti che saprà trovare una nuova via. Senza il peso del governo potrà occuparsi del partito e in primis ricomporre le fratture, anche se è faticoso ammettere di aver sbagliato.

 

Dopo il voto Pierluigi Bersani commentava in televisione il risultato del referendum e spiegava con la metafora della mucca nel corridoio l’esigenza di ascoltare il Paese che sta male, soprattutto perché non ha lavoro. È il Bersani delle liberalizzazioni ma anche quello della militanza orgogliosa. Pochi minuti prima di lui in tv c’era Graziano Delrio, che sembrava voler offrire una sintesi tra due mondi che non si parlano: difendeva Renzi per lo sguardo ottimista sul Paese così criticato dalla minoranza, senza però rinnegare la capacità di capire chi soffre.

Ora, se in gioco c’è il Paese sarebbe davvero incomprensibile che un leader che si è proposto come il nuovo e ha fatto già un pezzo importante di strada come Renzi non trovi il modo di chiudere questo solco, invitare a cena Bersani, parlare chiaro, mettere da parte le incomprensioni e i personalismi, i ricorsi storici della sinistra. Se così farà, che vinca o no il probabile congresso, Bersani o chi per lui non potrà tirarsi indietro. Soprattutto, se il Pd trovasse la forza di uscire da questa crisi obbligherebbe anche gli altri partiti a un cambio di passo: il centrodestra farebbe le primarie, il M5S presenterebbe un programma di governo. Così, infine, potremmo scegliere.

beniamino.pagliaro@lastampa.it

@bpagliaro

(Clicca qui per l’articolo integrale su La Stampa)

12 Dicembre 2016

LE SFIDE DEL PD – RIFLESSIONE A FREDDO

Cosa Penso

Sono molto dispiaciuto per la sconfitta del Sì al referendum.

Mi sono speso molto per sostenere le ragioni di una proposta che continuo a ritenere migliorativa, di tanto, del nostro sistema istituzionale e son convinto che si sia persa una #opportunità.

In un paese in cui non si dimette mai nessuno, ho apprezzato la #coerenza di Matteo Renzi, che un’ora dopo la chiusura dei seggi ha ammesso la sconfitta, attribuendola in primo luogo a sé stesso, e si è dimesso. Coerentemente con quello che aveva detto lungo la campagna elettorale (quanta distanza fra quanti hanno ripetuto per mesi che non avrebbe dovuto dimettersi, salvo berciare un secondo dopo il primo exit poll “dimissioni, dimissioni!“).

Ora il Partito Democratico ha tre #sfide davanti a sé.

1. Capitalizzare e non disperdere il #voto a sostegno della riforma, poiché evidentemente solo il PD e Renzi sono in grado di attrarre un così consistente voto a favore, costruttivo. Il resto è un voto contro, ma con origini, motivi e appartenenze diverse e inconciliabili; siamo al tempo stesso una minoranza e una maggioranza relativa. Insomma, Renzi deve proporsi per continuare a guidare il Partito (e cominciare a farlo di più).

2. Chiarire una volta per tutte e decisamente in fretta le #regole fondamentali per lo stare insieme nel partito. Un partito grande come il nostro può contenere posizioni differenti e anche reggere voti differenti (peraltro solo nel PD è capitato, non ho sentito nessun Forzista o nessun grillino votare diversamente dal rispettivo Capo-mai-eletto), ma il #modo e il #tono con cui queste differenze si esplicitano non sono indifferenti. Insomma, un #congresso in tempi brevi.

3. Coniugare il nostro senso di #responsabilità con l’opportunità di non essere sempre da soli a farcene carico. Se Bersani non avesse fatto il “responsabile” sostenendo Monti, se non avessimo fatto i “responsabili” accordandoci con Berlusconi per il governo Letta, se non ci fossimo caricati noi il mandato a fare le riforme che Napolitano chiese non a noi ma a tutti il giorno della sua elezione… la storia sarebbe andata diversamente.

Insomma, d’ora in poi un po’ di #tattica in più e, comunque, al #voto il prima possibile.

5 Dicembre 2016

INCONTRO REFERENDUM COSTITUZIONALE – 4/11/2016

Appuntamenti

Venerdì 4 novembre, nel salone di Via Luserna di Rorà 8, alle 21, ci incontriamo per discutere di Referendum e Riforma costituzionale con due ospiti di grande livello:
– Roberto Cociancich, Avvocato, politico, ed educatore, presidente della Conferenza Internazionale Cattolica dello Scautismo dal 2011 e senatore per il Partito Democratico dal 2013. Coordinatore nazionale dei comitati per il SI;
– Roberto Reggi, Sindaco di Piacenza dal 2002 al 2012, nel 2014 è sottosegretario di Stato del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca nel Governo Renzi ed attualmente è direttore dell’Agenzia del demanio.

L’ingresso è libero e l’occasione è ottima per invitare amici e conoscenti interessati ad informarsi sul tema!

(EVENTO FACEBOOK: https://www.facebook.com/events/562284583971214/ )

27 Ottobre 2016

IL MIO Sì

Cosa Penso

Il Referendum costituzionale del prossimo 4 dicembre (si vota in tutta Italia dalle 7 alle 23) è un’occasione che questo paese, a mio avviso non può perdere.

Innanzitutto è compito della nostra onestà intellettuale renderci conto di quale sia il vero oggetto del referendum, al di là delle strumentalizzazioni politiche che troppo spesso ne vengono fatte.

Abbiamo oggi la possibilità, offertaci tramite lo strumento di coinvolgimento più ampio e diretto che la nostra democrazia ci mette a disposizione, di scegliere fra due visioni del nostro paese e dell’impianto delle nostre istituzioni. Da un lato troviamo la visione che già conosciamo, quella attuale caratterizzata dal bicameralismo perfetto che tanto spesso ha comportato degli inconvenienti da più parti stigmatizzati, quali ad esempio la lentezza del percorso legislativo, l’abuso della decretazione d’urgenza, gli alti costi della politica. Dall’altro lato troviamo una visione nuova, che probabilmente non rientra nei canoni della perfezione (che per fortuna non è umana), ma che nasce dalla volontà di correggere esattamente tutte queste contraddizioni che spesso abbiamo rilevato.

Il bicameralismo differenziato delineato dalla proposta di riforma costituzionale in esame permetterebbe di:

  • razionalizzare, semplificare e velocizzare il processo legislativo affidando un ruolo specifico e centrale alla Camera dei Deputati,
  • riordinare le competenze e il ruolo delle autonomie locali, prevedendo il Senato delle Regioni e ripartendo con grande chiarezza le competenze fra lo Stato e le Regioni.

La chiave di lettura di questo referendum deve essere quindi, a mio avviso, centrata su come intendiamo vedere e costruire il futuro di questo paese. Se il nostro interesse primario è quello di realizzare le riforme e le leggi di cui l’Italia ha bisogno per essere un paese competitivo e in crescita, allora questa occasione è centrale e non dobbiamo lasciarcela sfuggire. Se invece il nostro interesse è conservare gli equilibri così come sono, lasciare che il potere della burocrazia rallenti lo sviluppo, avallare le battaglie di chi ritiene che la rappresentatività debba prevalere sulla governabilità e quindi sostenere una politica che parla di sé stessa molto più che dei veri problemi dell’Italia, allora possiamo lasciar andare questo appuntamento.

In questo quadro, io non ho dubbi su dove stare e il mio sì è, alla luce di ciò, è sempre più fermo e convinto.

12 Ottobre 2016
Pagina 1 di 212

Seguimi su Instagram!

Seguimi!

Ultimi Articoli

  • LA VARIANTE PIEMONTESE1 Agosto 2022 - 13:43
  • Punto vaccini in Piemonte: siamo ancora indietro2 Aprile 2021 - 12:32
  • DPCM Draghi 6 marzo 20213 Marzo 2021 - 15:35
  • IL MIO 2020 IN CONSIGLIO REGIONALE5 Gennaio 2021 - 10:58
  • DICEMBRE 2020: IL PIEMONTE SBAGLIA COMPLETAMENTE I DATI DEI TAMPONI COVID1921 Dicembre 2020 - 10:31
  • Bando Unico Regionale 2020 a sostegno di attività culturali, del patrimonio linguistico e dello spettacolo10 Novembre 2020 - 11:41
  • PROROGA BANDO SPORT E PERIFERIE24 Settembre 2020 - 17:16
  • BANDO MISURE STRAORDINARIE SPORT 202016 Giugno 2020 - 10:08
  • Istruzioni per ricevere il Bonus Riparti Piemonte20 Maggio 2020 - 11:36
  • TUTTI I BONUS RIPARTI PIEMONTE: ecco chi può riceverlo15 Maggio 2020 - 11:18
  • SOSTEGNI A NUOVE IMPRESE E LAVORATORI AUTONOMI6 Maggio 2020 - 15:14
  • Come richiedere la sospensione mutui prima casa prevista dal DL Cura Italia2 Aprile 2020 - 17:09
  • Lottare contro le mutilazioni genitali femminili6 Febbraio 2020 - 12:46
  • RENDIAMO GIOVANE L’ITALIA – Cronache dalla Regione Piemonte23 Ottobre 2019 - 11:29
  • PROTEGGIAMO GLI AFFIDAMENTI14 Ottobre 2019 - 16:27
  • NOVITA’ DALLA RIFORMA DELLE ASSOCIAZIONI DI PROMOZIONE SOCIALE7 Ottobre 2019 - 15:58
  • 100 GIORNI DI NULLA – Cronache dalla Regione Piemonte30 Settembre 2019 - 12:27
  • SCARICA LA RELAZIONE DELLA COMMISSIONE D’INDAGINE COVID1930 Luglio 2021 - 15:48
  • AGENDA 2031, IL PROGRAMMA DEL CENTROSINISTRA5 Maggio 2021 - 10:47
© Copyright - Daniele Valle | web: Housedada
  • Facebook
  • Twitter
  • Instagram
  • Telegram
  • LinkedIn
  • Youtube
Scorrere verso l’alto

Utilizziamo i cookie per essere sicuri che tu possa avere la migliore esperienza sul nostro sito. Se continui ad utilizzare questo sito noi assumiamo che tu ne sia felice.

OKMaggiori Info

Cookie and Privacy Settings



Come usiamo i cookie

Potremmo richiedere che i cookie siano attivi sul tuo dispositivo. Utilizziamo i cookie per farci sapere quando visitate i nostri siti web, come interagite con noi, per arricchire la vostra esperienza utente e per personalizzare il vostro rapporto con il nostro sito web.

Clicca sulle diverse rubriche delle categorie per saperne di più. Puoi anche modificare alcune delle tue preferenze. Tieni presente che il blocco di alcuni tipi di cookie potrebbe influire sulla tua esperienza sui nostri siti Web e sui servizi che siamo in grado di offrire.

Cookie essenziali del sito Web

Questi cookie sono strettamente necessari per fornirti i servizi disponibili attraverso il nostro sito web e per utilizzare alcune delle sue funzionalità.

Poiché questi cookie sono strettamente necessari per la fruizione del sito web, non è possibile rifiutarli senza influire sul funzionamento del nostro sito. È possibile bloccarli o eliminarli modificando le impostazioni del browser e imporre il blocco di tutti i cookie su questo sito web.

Cookie di Google Analytics

Questi cookie raccolgono informazioni che vengono utilizzate in forma aggregata per aiutarci a capire come viene utilizzato il nostro sito web o l'efficacia delle nostre campagne di marketing o per aiutarci a personalizzare il nostro sito web e la vostra applicazione al fine di migliorare la vostra esperienza.

Se non vuoi che monitoriamo le tue visite sul nostro sito puoi disabilitare il monitoraggio nel tuo browser qui:

Altri servizi esterni

Usiamo anche diversi servizi esterni come Google Webfonts, Google Maps e fornitori di video esterni. Poiché questi fornitori possono raccogliere dati personali come il tuo indirizzo IP, ti consentiamo di bloccarli qui. Si prega di essere consapevoli del fatto che questo potrebbe ridurre pesantemente la funzionalità e l'aspetto del nostro sito. Le modifiche avranno effetto una volta ricaricata la pagina.

Impostazioni per Google Webfont:

Impostazioni per Google Maps:

Vimeo and YouTube video embeds:

Privacy Policy

Puoi leggere i nostri cookie e le nostre impostazioni sulla privacy in dettaglio nella nostra pagina sulla privacy.

Privacy Policy
Accettare le impostazioniNascondi solo la notifica